Descrizione, argomentazione; è possibile che il resoconto narrativo corrisponda nei miei libri alla decomposizione di una figura preliminare, la proiezione di una scena, la sequenza di un’azione che ha luogo casualmente ma ogni volta necessariamente nello stesso scenario; o in ogni ambientazione che possa risalire a quelle dell’immagine? Naturalmente, se l’immagine rivela ciò che determina il suo assemblaggio di figure attraverso la sola ambientazione. Dal punto di vista pittorico, le operazioni materiali che hanno rapporto con la figura non implicano considerazioni puramente tecniche. Al contrario, esse le subordinano a prevedibili interpretazioni da parte dello spettatore. Se l’artista sceglie una tecnica rispetto a un’altra, significa che il suo desiderio lo porta a elaborare un giudizio critico che riguarda il modo contemporaneo di comprendere gli oggetti. La sua principale preoccupazione è di giustificare il suo approccio con rispetto per il passato e il futuro. In questa luce, il mio approccio può dipendere interamente dal motivo o dal soggetto che ha sprigionato la sua messa in opera. In altre parole se la figura non avesse prevalso né come immagine né, cosa più importante, come maniera di concepire le modalità di un’immagine — e anche lo spirito della sua realizzazione — allora non avrei scritto Il bagno di Diana, o Il Bafometto. Se il pensiero espresso in questi lavori è oscuro o, più in generale, astratto nelle sue dimostrazioni teoretiche, è perché all’inizio ero impressionato da qualcosa di concreto e inspiegabile come la persistente visione di un gesto. Il gesto di una muta faccia gelata nell’espressione di: denegazione? Confessione? O entrambe? Due spazi aperti quassù, ognuno dei quali somiglia all’altro, ma non sono interscambiabili. Il dilemma abbraccia da una parte lo spazio mentale della scena descritta, del dialogo, dell’argomentazione — in cui il modello ripudia l’identità del ritratto, della sua fisionomia e l’interpretazione che le apparenze danno al suo gesto, come ivi rivelato; e dall’altro, lo spazio corporeo (lo spazio della statuaria e la sua proiezione pittorica), la scena dipinta, che riproduce il gesto interpretabile nel suo ostinato silenzio, suggerendo altri gesti possibili e contradditori. Da qui la qualità teatrale delle mie composizioni: una pantomima degli spiriti. La presenza spaziale della statua (intesa come simulacro dell’antichità romana) evocata nel Bagno di Diana gradualmente mi conduce a sviluppare l’accettazione del termine “simulacro” nel suo senso implicito di simulazione, praticamente per giustificare la tendenza imitativa dell’arte tradizionale. Prima di ritornare ai miei propositi, devo sottolineare che il termine simulacro porti esso stesso a una considerevole confusione. Nel linguaggio come nella rappresentazione scultorea, c’è una relazione variabile tra il simulacro e lo stereotipo. Il simulacro che imita è l’incarnazione di qualcosa di naturalmente incomunicabile o non rappresentabile: il fantasma o l’immagine illusoria, nella sua ossessiva azione duale. Al fine di segnalare la presenza — che sia propizia o sinistra — di questa qualità invisibile, la funzione primaria del simulacro è quella dell’esorcismo; ma per esorcizzare l’ossessione, il simulacro imita l’aspetto del fantasma che è in grado di cogliere. Ciò che ambisce a riprodurre è l’indicibile e il non mostrabile, impossibilitato dalla censura morale, sociale o religiosa. Cosa fa allora il simulacro, nel suo doppio ruolo, che è quello di proclamare il suo oggetto e imitarlo? Servendosi degli istituzionali e, da questo momento, convenzionali stereotipi del dicibile e del mostrabile, trasformandolo in vantaggio. Lo stereotipo stesso risponde prima di tutto agli schemi normativi delle preoccupazioni visive, tattili e uditive, gli schemi che condizionano la nostra ricettività primaria. Istituzionalizzata secondo requisiti sociali continuamente variabili, questi schemi come stereotipi sono utili a prevenire ogni alterazione di altri nostri stereotipi come risultato di una percezione che sia fantasmagorica, mostruosa o perversa. Il duplice ruolo del simulacro è radicato nella sua azione preventiva. Ogni invenzione di un simulacro presuppone il regno di stereotipi predominanti. In effetti, gli stereotipi del linguaggio e della rappresentazione scultorea sono nient’altro che i resti di immagini fantasmagoriche che sono cadute in un uso comune, che sono divenuti gli oggetti di una comune interpretazione. Come immagini degradate, esse riflettono una reazione individuale o collettiva nei confronti dello spettro che è stato privato del suo contenuto. L’invenzione di un’immagine procede sempre a partire dalla conoscenza del suo processo. Gli schemi percettivi stereotipati, specialmente gli schemi visivi del corpo umano, il paesaggio e gli oggetti, espressi in una rappresentazione convenzionale, sono non meno suscettibili di un’interpretazione peculiare — che è un’interpretazione fuori proporzione rispetto allo schema percettivo, e al momento tende a evocare un fantasma nascosto dal solito stereotipo. Questo era più chiaramente mostrato dalle improvvisazioni pittoriche che crescevano nelle prime fotografie, specialmente tra gli artisti americani. Tutto sommato la superstizione “realista” o “naturalista” non è nient’altro che il delirio di interpretazione di un’epoca. L’imperativo di riprodurre la natura oggettivamente — il bisogno di insistere sul contatto tra il corpo e gli oggetti, e la resistenza data da altri corpi — tutto ciò è caratteristico di una moderna e fantasmagorica ossessione. Il simulacro effettivamente simula la duplice azione del fantasma esagerando i suoi schemi stereotipati: esagerare e accentuare lo stereotipo per accusare l’ossessione di cui esso rappresenta la replica. Una scienza logorata dagli stereotipi caratterizza genialità diverse come Ingres e Courbet, il primo esplorando schemi classici, il secondo l’iconografia popolare. La pura e semplice distruzione dello stereotipo in pittura all’inizio del Novecento annuncia il rifiuto dell’imitazione (esorcizzando) il ruolo del simulacro e l’abbandono del “soggetto”.
La pittura cessa di essere un simulacro per divenire una cosa in sé. Due osservazioni di Klee sugli stereotipi del genere del “nudo” e dei “vecchi maestri” sono sviscerate in relazione a questo: “Come uomo, la figura ha anche uno scheletro, muscoli, e pelle. Si può parlare di caratteristica anatomia della figura. Un dipinto il cui soggetto è un uomo nudo non deve essere realizzato secondo l’anatomia umana, ma secondo quella della figura. Si inizia dal costruire uno scheletro su cui si fonda il dipinto. Partendo dallo scheletro si può ottenere un effetto pittorico che è più profondo di quello che emerge dalla sola superficie. “Il soggetto così come lo intendevamo è definitivamente morto. La preponderanza di soggetti erotici non è un fenomeno esclusivamente francese, esso denota piuttosto una predilezione che induce alla sensibilità. La forma esteriore diventa particolarmente variabile, e agisce sull’intera gamma di temperamenti. Secondo l’elasticità della catalogazione, si può dire, dell’avvenimento. In conformità a questo, le tecniche di rappresentazione variano. La scuola del genere dei grandi maestri è sicuramente stata liquidata”. In breve, la liquidazione del genere dei “grandi maestri” implica l’abbandono del nudo come soggetto. Il nudo cede il passo al motivo del nudo, al fortuito/accidentale/casuale nudo, che viene così neutralizzato, dislocato o dissolto secondo le regole che caratterizzano la “pittura in sé”. La pittura non è più un simulacro che esorcizza alcune persistenti fantasmagoriche ossessioni, perché non imita, ma si esaurisce nella propria autonomia. Dato che era evidente che i miei disegni a pastello (realizzati prima di quelli a pastello colorati) e che tutto quello che ho fatto era superare certe situazioni e affrontare ciò che ho esposto e descritto nei miei libri, non ci si ferma a guardare il modo in cui usavo i miei pastelli, ma si leggono le mie composizioni come un supplemento grafico delle mie elucubrazioni — intendendo i miei sforzi come nient’altro che una distrazione grafica. Da questo punto di vista i risultati del mio lavoro appaiono non come immagini, ma più come simulacri di immagini — simulacri di simulacri? — che non imitano più alcuni fantasmi privati, ma che simulano, oggettivizzano e criticano ciò che sopravvive degli stereotipi del passato nella mia sensibilità. In questo modo, essi tradivano apparentemente le reminiscenze di una maniera popolare e per questo ho dichiarato di essere un contemporaneo.