Giorgio Verzotti: Il monocromo tipico degli anni Settanta sottraeva alla scelta di un solo colore tutto il valore misticheggiante ereditato dalle Avanguardie, sulla scia della “morte dell’autore” di barthesiana memoria. Vedi, ad esempio, le posizioni di Oliver Mosset. Una prospettiva di lavoro totalmente “materialista”, come si sottolineava a quei tempi, nessuna “ricerca dell’assoluto”, nessun sottotesto evocativo del trascendente. Ma tu, ti riconoscevi in quelle tensioni?
Pino Pinelli: Negli anni Settanta una generazione di giovani autori avvertiva in tutta Europa l’esigenza di dare un senso nuovo alla ragione del fare pittura: una pittura più ragionata che indagasse sugli elementi fondamentali del dipingere, che sottoponesse tutti gli strumenti del fare ad un rigore analitico, atarattico e riflessivo. Personalmente avevo coscienza di addentrarmi in un campo che era stato abbondantemente esplorato: ma sentivo la necessità di cercare una mia via. Sono un uomo del sud, vissuto fino a ventiquattro anni in una città – Catania – dove la presenza e la maestosità di quella grande madre che è l’Etna ha formato il mio essere: il vulcano è una presenza viva, con i suoi bagliori notturni, con i suoi respiri, con i suoi vapori che invadono e si depositano come una leggera cipria. Quindi, la mia ricerca, risente di questa natura: le superfici dei miei monocromi si presentano come un palpito, uno stato ansioso, un estremo tentativo di toccare le corde del sublime.
GV: L’assoluto nel tuo caso emerge sì, ma come ricerca di linguaggio: l’assoluto del colore, dato per strati fino a cogliere con la saturazione in “tono” giusto.
PP: Il colore lo accolgo tutto per trasformarlo in “oltre”; il mio colore non è solo steso. Il mio rosso, ad esempio, è la somma di gradazioni di colore di timbro diverso che modifico, altero e sollecito fino a ottenere il massimo della sonorità, la nota più alta. Seduzione e tattilità: la pittura affascina e seduce.
GV: Hai parlato spesso di “costruire” pittura, implicando il corpo, la fisicità nel processo creativo. È questo che hai mutuato da Fontana, il suo tentativo di coinvolgere, nel fare e nel percepire, tutti i sensi e non solo la vista?
PP: Tutta una generazione di artisti che opera nell’ambito del monocromo dagli anni Cinquanta ha un debito nei confronti di Fontana, che apre nuovi confini con la grande lezione della spazialità. Nel mio caso si può anche parlare, a proposito dei frammenti disseminati nello spazio, di una sorta di architettura della pittura che in alcuni casi è l’esibizione della pelle e in altri è del corpo della pittura.
GV: All’inizio, con i segmenti, il tuo lavoro enuncia il superamento della bidimensionalità del quadro, disseminando i moduli sulla superficie e dinamizzando il supporto/ muro. Si potrebbe parlare di una preminenza dell’idea/ visione sugli altri sensi legati alla percezione?
PP: Nel 1976 rompo il concetto della classicità del quadro, disponendone solo i quattro angoli a racchiudere una porzione di muro che da destinatario passivo diventa parte integrante dell’opera; nello stesso anno inizia anche il mio lavoro sulla disseminazione: i frammenti si dispongono sulla parete quasi a mimare il gesto del seminatore. La visione è un elemento essenziale del mio lavoro, ma c’è anche un coinvolgimento tattile, sensoriale che invita a: toccare, sentire, vedere.Certamente l’arte è pensiero. Pensare e fare. Fare e pensare.
GV: Quando il segmento diventa scaglia il senso muta.
PP: È vero, la scaglia assume le caratteristiche di una sorta di pelle della pittura. Gli elementi sono più mossi, perdono il rigore geometrico, ne rivelano le asperità, ne esaltano gli anfratti, la segretezza: tutto ciò che è visibile con l’occhio della mente. La scaglia prende forma, a volte, stendendo il materiale con la mano guantata per trasmetterne il calore e l’energia, altre invece, con l’ausilio di strumenti non canonici, da me inventati e che mi consentono di toccare la materia quasi a volerne stimolare l’arpeggio.
GV: Parli anche della luce, ma i colori primari così accesi, così “assoluti”, sembrano artificiali, non naturali, così come il frammento, la scaglia sembra non-organica.
PP: La pittura è artificio. I colori sono artificio. I pigmenti che uso non appartengono più al momento storico della pittura rinascimentale, sono moderni prodotti industriali che noi artisti, a volte, sentiamo l’esigenza di modificare. L’arte, per me, è enigma e capacità di prendere la luce. È seduzione e fascinazione. È un invito alla dimensione estetica dello sguardo e alla vertigine tattile del senso
GV: La tua opera è sospesa fra pittura e bassorilievo, è fisica e mentale insieme, sospesa tra virtuale e reale: la possiamo definire “ambigua”? Senza dare nessun valore negativo a tale termine, ovviamente.
PP: L’arte è ambigua per definizione. Il mio lavoro non obbedisce ai canoni classici del quadro: diventa frammento, diventa pelle, diventa carne, diventa corpo.
GV: Cosa pensi del successo anche internazionale che arride oggi alla tua opera, molto più di prima, così come a quella di altri protagonisti della pittura analitica?
PP: L’affermazione di questo movimento ha richiesto più tempo, essendo una ricerca che indagava sul senso di fare pittura, con una base teorica che richiedeva una maggiore volontà di dedicare attenzione a questa proposta, oggettivamente più ermetica. In questo momento il mio lavoro gode di maggiore interesse, anche se nel mio curriculum, le mostre in gallerie private e musei in Italia e all’estero, sono state sempre presenti.