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16 Maggio 2017, 4:07 pm CET

Richard Anuszkiewicz di Getulio Alviani

di Getulio Alviani 16 Maggio 2017
Richard Anuszkiewicz, Exact Quantity (1963). Courtesy l’Artista e David Richard Gallery, Santa Fe
Richard Anuszkiewicz, Exact Quantity (1963). Courtesy l’Artista e David Richard Gallery, Santa Fe.

La traiettoria ideativa e operativa di Richard Anuszkiewicz è chiara perché rigorosa. Una partenza che vuole essere emblematica è l’opera Self Portrait (1954), autoritratto inespressivo e volumetrico che riporta alle sagome del padre del suprematismo Kasimir Malevič. L’opera pittorica di Anuszkiewicz si snoda attraverso i meandri, dove la linea curva viene contrappuntata dalla linea retta e dove la campitura del fondo si compenetra nel segno e nei valori cromatici “pulsanti” come, anche se in modo arcaico, in Mask e Red Mask entrambi del 1955. Concentric (1956) è ancora libero, ma già Slow Center (1959) è dinamico, perentorio, costruito: un vortice in espansione dai colori complementari verde e rosso dove ha inizio, sul piano, l’intento della prospettiva percettiva. Poi la sicurezza, in Dissolwing edge of green (1959), dei colori equivalenti dove il fondo dialoga con il segno, divenendo segno esso stesso. Ma la vera vibrazione, quella che poi diverrà la costante di tutto il lavoro di Anuszkiewicz, è in Constellation (1960); qui l’artista prende coscienza degli equilibri e delle lunghezze d’onda dei colori. Si tratta di un’opera fondamentale, come sono quasi sempre quelle iniziali quando c’è l’intuizione di un problema, che trova nel suo farsi la scoperta di qualcosa che va oltre, forse persino del pensato, per divenire sorprendente constatazione. Questo lavoro è il punto più distante da quello che è stato l’insegnamento di Josef Albers, professore di Anuszkiewicz a partire dal 1953 alla Yale University che lo ha indirizzato a ricerche di analisi e produzione sempre più essenziali, scarne, ortodosse, vicine alla scienza. In apparenza il lavoro sulla superficie di Anuszkiewicz può sembrare vicino a quello di Albers ma, guardando con attenzione, si nota una pittura assai diversa, che non ha nulla a che fare con quella del maestro. Albers aveva una classicità innata con un approccio verso le cose che coinvolgeva la psiche, mentre Anuszkiewicz acutizza e esaspera gli effetti retinici, adottando infinite varianti, consapevole che con minime mutazioni i risultati possono cambiare notevolmente sino a ribaltarsi. Tutto questo dà l’illusione di spazio che trova, dagli anni ’80, la sua esistenza in forma volumetrica bianca e nera. Poi c’è il pericolo delle costruzioni vere e proprie, concrete, formate con quadrati o rettangoli intrecciate o sovrapposte a raggera o a rotazione e successivamente, negli anni ’90, sempre a livello tridimensionale, forme delimitate angolarmente composte da parallelepipedi diversificati cromaticamente che si compenetrano o accavallano in maniera articolata e complessa. A partire dal 1994 si assiste a un’apertura verso l’illusione, con spazi che si interrompono, compenetrano e intersecano. Questo è il momento conseguente alla grande stagione della “Op Art” violenta, da “bombardamento ottico”. Con Richard Anuszkiewicz ho una profonda amicizia e frequentazione da quando ci siamo conosciuti nel 1965 partecipando entrambi alla mostra epocale “The Responsive Eye” al MoMA di New York. Quello fu un momento di ribalta per quel genere che, dopo il grande successo degli anni ’60, ha attraversato momenti alterni di interesse tanto che quasi tutti quelli che l’avevano percorsa, anche con notevoli risultati, se ne staccarono per ambire a ben più facili consensi: basti pensare a Frank Stella, Larry Poons, Kenneth Noland che proprio per questo hanno rinunciato all’impegno e al rigore della ricerca… Richard Anuszkiewicz no!

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