Klaus Biesenbach: La prima coinvolgente esperienza che ho avuto di Pipilotti Rist è stata quando ho visitato la Chisenhale Gallery di Londra nel 1996. Ricordo che c’era l’installazione Sip my Ocean e tu stavi cantando in stile karaoke il testo della canzone di Chris Isaac, Wicked Game. Per molto tempo non riuscii a togliermi dalla testa quella canzone, e il video musicale con Chris Isaac ed Helena Christensen che amoreggiavano su una spiaggia tropicale era ancora molto attuale quando mi sono imbattuto per la prima volta nel tuo lavoro. Associavi la celebre canzone con le sequenze che collegavano il tuo corpo alla sensazione immensa di essere un tutt’uno con il mondo — di essere un tutt’uno con il mondo del pop così come con la natura e col tuo stesso corpo. Mi abbassai proprio al centro dello spazio espositivo, abbastanza vicino alle immagini proiettate, e gettai un’ombra sul muro della proiezione, mentre il retro della mia testa era illuminato dalla luce blu del videoproiettore. Questa installazione ha rappresentato un nuovo capitolo per la tua attività artistica?
Pipilotti Rist: L’installazione con quella interpretazione canora fatta assieme ad Anders Guggisberg è nata in realtà allo Stedelijk Museum di Amsterdam un anno prima. Mi ci sono voluti tre allestimenti prima che l’opera venisse ridotta in quel modo. La simmetria sembra logica. La fioritura proiettata nell’angolo è strettamente legata all’immagine del nostro corpo, dove molte parti sono quasi speculari. Ritengo che questo fatto nutra la nostra voglia smodata di essere sincronizzati con gli altri. Questa volontà è legata al nostro amore per i liquidi e per l’acqua. Un’installazione è un possibile corpo collettivo. E il nostro corpo è composto in gran parte d’acqua.
KB: Negli anni Ottanta avevo l’impressione che i mass media avrebbero creato un singolo, enorme pubblico mondiale — tutti avrebbero ascoltato la stessa canzone di Madonna o di Michael Jackson, o i dischi dei Joy Division o dei Cure, a seconda del gruppo adolescenziale o della mentalità a cui ci si sentiva più vicini. La guerra del Golfo, all’inizio degli anni Novanta, ha portato alla mia attenzione il potere della CNN. Ricordo chiaramente gli scatti fotografici realizzati dall’alto di un missile prima che si scagliasse sul bersaglio. La TV sembrava il linguaggio universale della nuova era che stava per arrivare. Eri influenzata dalla televisione, in particolare da MTV, durante quel periodo?
PR: Non chiamerei la TV un linguaggio, piuttosto una tecnica di distribuzione per diversi stili di film. La vedo come una scatola statica, o come gli odierni cartelloni pubblicitari, che assorbono la nostra attenzione e la nostra vita potenziale. In casa non ho un televisore che “mi protegge da ciò che voglio” (grazie Jenny Holzer per questa e per le altre meravigliose frasi!), perché devo guardare troppo di ciò che non voglio, prima che arrivi ciò che voglio. Purtroppo non vengono più trasmessi nemmeno così tanti video musicali. Considero alcuni di questi delle grandissime e succose opere d’arte, che si situano nell’ancor più vecchia tradizione di musica e film sperimentali.
KB: Diversi anni dopo, tutti questi canali televisivi sono crollati di nuovo. Si sentiva chiaramente la mancanza dell’idea di un centro che fosse visibile a tutti. Uno dei miei ultimi grandi ricordi di MTV fu Take a Bow di Madonna. Nel video, la cantante ha una relazione con un torero, e guarda la sua sfida in TV, mentre sta a letto, e fondamentalmente ha un rapporto sessuale con la TV. Sentivo che a livello di mainstream lei esprimeva buona parte delle impressioni che avevo in quel periodo — che i media fossero diventati delle protesi o che la TV si fosse sviluppata come un libidinoso oggetto del desiderio. Hai mai visto questo video? E se l’hai visto, quale è stata la tua reazione?
PR: Mi dispiace, ho un ricordo vago del video in questione. Ma è vero, i mass media cercano di sostituire gli elementi sociali. Devo sforzarmi di non guardare troppo in questo schermo bidimensionale del computer. Il nostro cervello è evolutivo e non è pronto per molte delle funzioni dei dispositivi elettronici.
KB: A metà degli anni Novanta, volevo creare un sottomarino con te, sfortunatamente questo non si è mai concretizzato, ma ricordo il tuo lavoro alla Biennale di Venezia del 1997, Ever is Over All, che ora si trova nella collezione del MoMA. Sentivo che era diventato molto più narrativo. Ora stai dirigendo il tuo primo film. L’ambizione di produrre nuove forme narrative è sempre stata qualcosa che ti ha stimolato?
PR: Per evolvermi dovevo fare un film. Un film rende conto di una certa narrazione per mantenere viva l’attenzione dello spettatore per 80 minuti. Una narrazione presuppone un team professionale e questo necessita di un budget, che ottieni soltanto per un lavoro narrativo. Un’installazione video può basarsi su una singola idea, ma un film ne esige una o più per ogni scena. Al cinema o davanti alla TV la gente dovrebbe perciò guardare in una direzione. Questo rituale rappresenta per me solo un’altra condizione e tratto la sala cinematografica come la sala di un’installazione.
KB: L’opera esposta al MoMA, Put Your Body Out (7354 Cubic Meters), è decisamente un’installazione come la precedente Sip My Ocean — possiede una narrazione spezzata, piena di associazioni, immagini speculari, e loop parziali. Ricordo che quando ebbi per la prima volta un riproduttore video dotato di maggiori funzioni rispetto a play, stop, forward e rewind, guardai alcuni tuoi video che avevo in ufficio e utilizzai la funzione freeze-frame (letteralmente, congelamento del fotogramma, ndr) ripetute volte, solo per capire che in sostanza ogni singolo fotogramma su cui mi concentravo poteva funzionare come un’immagine in sé, a livello compositivo. Si tratta di una delle tue tecniche o accade semplicemente così?
PR: Il materiale finale è il prodotto di un processo più lungo. Questo consiste in un lavoro di ripresa organizzato e cosciente, con un sacco di materiale footage da una parte, e di attività di selezione e di editing dall’altra, la quale richiede la maggior parte del tempo. Poiché la terza dimensione si perde nei film devi riprodurla con la qualità della composizione delle immagini, con il ritmo, con il suono e la musica.
KB: Nel 1997, al P.S.1 Contemporary Art Center, ora affiliato del MoMA, allestimmo assieme nell’ingresso il più piccolo dei tuoi lavori, Selfless in Lava Bath. L’opera è ancora installata all’entrata del P.S.1. Ora stiamo realizzando un’opera di grandi dimensioni commissionata per l’atrio del MoMA. Inoltre hai esposto un’installazione monumentale nella chiesa di San Stae a Venezia. Le dimensioni contano?
PR: La dimensione è solo un’altra condizione specifica di uno spazio che possiedo o di cui mi voglio occupare. Fare un’installazione in un piccolo café o al MoMA ha lo stesso valore per me. Le stanze grandi si riferiscono a un’esperienza collettiva, alle riunioni. Nel caso della chiesa, la grandezza rappresenta anche una prova della presunta grandezza di Dio in confronto alla nostra piccolezza. Ma allo stesso tempo, questi luoghi ti ricordano di dimenticare i tuoi piccoli problemi, che sono legati a quelli degli altri. Il Marron Atrium al MoMA, con il suo spazio abbondante, è anche una stanza di passaggio dove i visitatori fluiscono nelle diverse gallerie. Voglio trattare anche questo uso.
KB: Sono appena stato alla Biennale di Shanghai in Cina, un posto dove abbiamo lavorato insieme. Ho osservato un po’ il pubblico, perché con il fatto che ora quasi ogni cellulare è dotato di fotocamera incorporata, gran parte dei visitatori guardava attraverso l’obiettivo per vedere le opere. Guardavano i lavori sul piccolo schermo digitale e il modo in cui le opere esposte apparivano sul muro o sul pavimento e, dopo aver scattato la foto, avanzavano. Questo significa che ci saranno presto migliaia di nuovi artisti multimediali, o si tratta solo della comune moda consumistica di oggigiorno: si vede solo se si guarda attraverso un obiettivo?
PR: Negli ultimi venti anni la tecnologia è diventata più economica e più piccola, ciò ha un grande potenziale democratico. Dove invece non c’è uno sviluppo è la postproduzione, che richiede un sacco di tempo, propositi e concentrazione. La conoscenza della macchina fotografica e dell’editing è già, e si spera lo sarà ancora di più, una parte dell’educazione scolastica. Il mio ricordo della Biennale di Shanghai nel 2002 era differente dal tuo. Forse i visitatori ora godono a casa dei lavori fotografati.