Nel famoso volume di Allan Kaprow, The Legacy of Jackson Pollock (1958), l’autore scrisse che il pittore astratto era riuscito a creare nelle sue opere una sorta di coincidenza tra il bordo del supporto dipinto e il terreno ai suoi piedi: “Con l’enorme tela posizionata sul pavimento, tanto da rendergli difficile una visione globale dell’opera o di gran parte di essa, Pollock poteva affermare con certezza di essere ‘dentro’ il quadro”.
La mostra del 1998 al MOCA di Los Angeles, “Out of Actions: Between Performance and the Object, 1949-1979”, si ispirava al pensiero di Harold Rosenberg sullo stato della pittura post Pollock — la tela come “un’arena nella quale agire” —, che esaminava il rapporto tra il gesto pittorico e il corpo, vedendo la pittura successiva come il risultato di una “performance” del fare.
Tuttavia, in questo contesto, l’“agire” poteva essere definito non in senso teatrale, ma esistenziale. Dipingere diventava un modo per lasciare una traccia della propria esistenza, il segno fisico di un corpo su una superficie resistente che conserva la testimonianza di un passaggio attivo attraverso incisioni, croste o macchie permanenti.
Di carattere espressionista, tale concetto di pittura come performance basato sull’azione mette in relazione l’anima dell’artista con la sua traccia fisica, proponendo il corpo come strumento o mediatore. Iniziata con Pollock, questa linea interpretativa attraversa il movimento Gutai di Tokyo e l’Azionismo Viennese, devia giocosamente con Yves Klein e Carolee Schneeman, viene successivamente rimescolata da Julian Schnabel e Paul McCarthy ed è presente nei primi lavori di Matthew Barney (Drawing Restraint).
Al fine di approfondire la nozione di espressione, sia per proporre una relazione letteralmente indicale — e altamente simbolica — tra il corpo dell’artista e la “traccia” che ne risulta, sia per criticare ogni presunta “universalità” del corpo stesso da un punto di vista sessuale o razziale, Ana Mendieta, per esempio, itera il gesto pittorico con il sangue in Untitled (Body Tracks) (1973): opera realizzata strisciando le mani ricoperte di tagli su un muro bianco. Anche David Hammons negli anni Sessanta e Settanta realizza le sue “Body Prints” in grasso su carta. Nonostante la diversità di intenzioni, questi lavori hanno in comune un’estenuante feticizzazione della pittura astratta in quanto gesto, svuotando ulteriormente il medium della sua originaria capacità narrativa o rappresentativa in modo da focalizzarsi su di esso come espressione diretta, in alcuni casi “automatica”. Questo approccio alla pittura strumentalizza l’immagine dell’artista come un modello isolato e riservato, la cui soggettività potrebbe essere espressa all’esterno, ma con un linguaggio che risiede al di fuori degli altri registri della rappresentazione: si tratti di un regno cripticamente simbolico o, in seconda istanza, quando subentrano pastiche e critica, di uno storico-artistico autoreferenziale.
È possibile, e allo stesso tempo produttivo, approcciarsi in modo diverso alla relazione tra pittura e performance se viene ribaltata l’idea di trovarsi “dentro” il dipinto che Kaprow aveva attribuito a Pollock. Si pensi al tipo di impegno preso con la pittura e con la creazione di immagini che aleggiava negli anni Ottanta, in cui le capacità pittoriche risiedevano, in un certo senso, all’interno dell’artista — intese come capacità di autopresentazione e invenzione di se stessi, oltre che di trasformazione del proprio ambiente. Questo approccio chiama in causa una serie diversa di significanti che storicamente la pittura poteva implicare.
Eleanor Antin nel video Representational Painting (1971) offre un punto di partenza alternativo a questo filone di analisi. Invocare la “rappresentazione” consente un perverso ritorno dall’astrazione — allora dominante — all’idea di pittura in quanto illusione: un obiettivo, quest’ultimo, tenuto in gran considerazione dalla “storia dell’arte” tradizionale e risalente al mito greco, che narra in maniera teatrale della gara tra i pittori Zeusi e Parrasio in cui un uccello beccò un grappolo d’uva dipinto in una natura morta. Tuttavia, nel suo lavoro Antin fa anche appello all’illusione come a una forma di mascherata. Lungi dal considerare il dipingere un modo per registrare la propria esistenza, con quest’opera l’artista affronta la capacità della pittura di raffigurare e modulare utilizzando leggere gradazioni di colore, forme e linee, e considera come con essa si possa raggiungere la mediazione della propria immagine. Al posto di presentare la tela dipinta in quanto prova — le tracce astratte simili alla “scena del crimine” successiva all’evento —, il video di Antin associa allo spazio dipinto l’idea di un genere diverso di arena in cui, o attraverso la quale, il soggetto può agire: uno spazio per il “make up” inteso sia come l’applicazione del rossetto e dell’eyeliner sia come associazione di fantasia e invenzione.
Representational Painting, dove è intenta a truccarsi per accentuare la propria femminilità grazie ai cosmetici, suggerisce una superficie duplicata dell’immagine del suo volto mentre viene registrata a video col passare del tempo. Interferendo con l’idea di un legame indicale tra la registrazione documentaria e l’atto, l’opera mette in evidenza un gap produttivo tra il vero aspetto di Antin e quello dipinto. È un intelligente colpo inferto al territorio inviolabile che la “raffigurazione” rappresentava all’epoca in pittura: un’applicazione ready made delle sue tecniche al servizio dell’avvicinamento a un ideale femminile che era, da un punto di vista politico, ugualmente proibito alle femministe.
In Il pittore della vita moderna (1863) Charles Baudelaire scrisse con toni positivi del magico artificio alla base della pratica femminile del “maquillage” e della sua capacità di dare un’apparenza soprannaturale a chi lo usa. L’autore contestava la convinzione tipica del XVIII secolo che tutta la bontà e la bellezza derivassero dalla natura, proclamando invece che “tutto ciò che è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo […] Il trucco non deve nascondersi; può, anzi, mostrarsi, se lo fa con franchezza e onestà”.
L’idea di “dipinto raffigurativo” di Antin, così come l’elogio della cosmetica di Baudelaire, respingono l’enfasi posta sul “sacro” o sull’“eterno” in favore del secolare e dell’artefatto. Mettere in scena la pittura come maquillage apre la strada ad alcuni artisti che, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, l’hanno utilizzato per il travestimento. Non ultimo, ovviamente, Andy Warhol che non solo crea una serie di immagini di se stesso in cui indossa una parrucca bionda, eyeliner e rossetto, ma utilizza il motivo del camouflage in molti dei suoi ritratti — inclusi gli autoritratti. Tra le sue famose dichiarazioni sull’argomento: “Se volete sapere tutto su di me, basta guardare semplicemente alla superficie dei miei dipinti”. E quando gli veniva chiesto se avrebbe smesso di dipingere a un certo punto della sua carriera, replicava: “Mi dipingo le unghie tutti i giorni”.
La pittura come masquerade dopo Warhol e Antin assume in alcuni casi la forma del travestimento o del “drag” e si espande fino a incorporare altre forme illusionistiche quali il trompe l’œil o un set dipinto che crea un’ambientazione, una mise-en-scene abitabile. Questi approcci alla pittura non testimoniano la presenza fisica dell’artista che li ha realizzati, ma implicano piuttosto una sua particolare prospettiva o punto di vista, oppure un mondo che nasce dall’aspirazione o dalla fantasia in cui l’artista è immerso. La pittura diventa in questo caso lo strumento per inventare uno spazio che collega l’azione all’ambiente attraverso lo schermo della rappresentazione basata sull’immagine.
Le perfette combinazioni di spazio dipinto e di quello reale interno del docu-fantasy su David Hockney A Bigger Splash (1973) — in cui si fondono immagini di tele dell’artista con riprese del suo appartamento e studio — creano un effetto fiction dell’arte e della vita diverso da quello di cui parlava Kaprow. Questo approccio al tema traspone il legame effettivo dell’artista con i dipinti di scena, dopo i primi progetti scenografici per l’Ubu Re negli anni Sessanta e le numerose scenografie per il genere operistico realizzate negli anni Settanta, nel regno della sua vita quotidiana come un aspetto della sua pratica artistica: espandendo la nozione di costruzione di cui si nutre il suo stile “realista” astratto, dai colori brillanti, per dissimulare tutto il suo mondo in varie possibilità.
Verso la fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta anche il lavoro di Karen Kilimnik parte dall’idea di “dipinto scenografico”, presa in prestito dal balletto classico, come pretesto per tornare sul terreno proibito del dipinto raffigurativo, evocando un mondo quasi mitologico che ruota attorno all’immersione dell’artista in un immaginario femminile fantastico. Alcuni esponenti della generazione successiva hanno attinto a questa idea di pittura come medium che permette di aprire uno spazio fantastico e liminale. La prima installazione dell’artista di Colonia Kai Althoff non a caso si intitola Workshop e include pittura, performance e musica; infatti, l’immagine “industriale” evocata dall’idea di “workshop” è bilanciata dall’inserimento di immagini ritagliate di saloni di bellezza, concepiti dall’artista come posti di creatività, e collega la sua pratica pittorica al luogo performativo proposto dalla situazione contingente. Con modalità differenti, Pablo Bronstein, Spartacus Chetwynd e Nikhal Chopra realizzano performance che si oppongono volutamente al fare pittura. Unendo le caratteristiche della pittura e del disegno all’esplorazione dal vivo della presenza, trattano il medium pittorico come un luogo che crea uno squarcio su un mondo parallelo abitato dall’artista o dal performer scelto per interpretare ruoli e visioni inventate. Gli interventi coreografici di Bronstein in spazi pubblici, per esempio Plaza Minuet, realizzato a New York nel 2007, trasmettono in tempo reale le elaborazioni fantastiche di architetture che l’artista disegna e dipinge. Anche Mathilde Rosier, il collettivo Hobbypop di Düsseldorf e Ryan Trecartin approfondiscono l’idea di pittura come scena teatrale con maquillage, inserendo letteralmente tele dipinte nelle performance — spesso realizzate per i video — per significare un ibrido tra spazio inventato e spazio reale in cui i partecipanti possano agire liberamente senza inibizioni. I-BE AREA (2007) di Trecartin registra in maniera amatoriale una caotica recita in parte improvvisata da ragazze con i volti dipinti in maniera appariscente, tra resti di tele dipinte che iniettano nuove possibilità in un ambiente domestico ordinario.
Se l’arena della pittura rappresentativa può fornire uno sfondo che permette all’artista o allo spettatore di evocare una scena immaginaria, le forme astratte possono anche funzionare come un velo sulla realtà, così da trasformare la percezione di un determinato ambiente. I motivi astratti di Daniel Buren, Edward Krasinski e Yayoi Kusama operano in vario modo allo scopo di “reclamare” gli spazi e le superfici su cui sono applicati per modificarne la nostra percezione. Nel caso di Buren, questo fenomeno assume forme diverse, attraverso l’estensione delle sue tradizionali strisce a una fila di bandiere appese tra lo spazio della galleria e la strada, alle vele di una flotta di navi, o attraverso i prati dei formali giardini di Versailles. Kusama applica allo stesso modo il suo allucinogeno motivo a pois a ogni tipo di superficie e spazio, dal primo lavoro performativo, Flower Orgy (1968) — in cui i partecipanti, nudi (a ricordare la pratica hippie del body painting, molto popolare negli Stati Uniti) e coperti di pallini di vernice rossa, gialla e blu, erano semi-mimetizzati all’interno di un ambiente — fino agli interventi più recenti a Londra lungo il South Bank, dove alcuni alberi sono stati avvolti da tessuto a pallini rossi. L’artista londinese Marc Camille Chaimowicz, allo stesso modo, capovolge le regole espressioniste o formali dell’astrattismo. La pittura è alla base della sua pratica, combinata a performance a cui partecipa a partire dagli anni Settanta. Fin dagli inizi della sua carriera utilizza il proprio studio a est di Londra come una sorta di showroom di design in cui pareti, pavimento, tessuti e arredi sono disegnati e decorati con i suoi tipici motivi, come fosse il “set” della sua quotidianità semiromanzata, registrata anche in opere video e slide.
Diversamente dalla nozione modernista di una “fedeltà al medium” dopo Manet, questi artisti si concentrano nuovamente sulla capacità della pittura di ingannare e dissimulare. Così facendo, non solo aprono nuove possibilità a un medium “defunto”, ma mettono in scena rudimentali esplorazioni della nostra partecipazione al mondo contemporaneo attraverso la lettura o la produzione di immagini. Il collettivo di pittori sloveni IRWIN, per esempio, ha un approccio politico alla mise-en-scene performativa nella mostra del 1984 “Back to the USA”. Per questa occasione ricreano, dipingendola, la veduta dell’installazione di un’esposizione americana con lo stesso titolo, che in quel momento girava in Europa, ma che non era autorizzata a varcare i confini dell’allora Slovenia comunista. Le opere presenti, realizzate da artisti quali Jonathan Borofsky e Matt Mullican, sono deliberatamente dipinte da IRWIN come se fossero riprodotte dopo essere state scelte da una rivista, deformate e oblique per via dell’unico punto di vista della fotografia in bianco e nero.
Lucy McKenzie e Paulina Olowska riportano l’attenzione verso l’originaria idea di pittura in quanto “finestra” e illusione, creando spazi dipinti con la tecnica del trompe l’œil. Che si tratti degli interventi di Olowska nelle grandi stanze in stucco e marmo del Kunstverein Braunschweig, o della “stanza dentro una stanza” di McKenzie, ispirata in parte all’opera di Charles Rennie Mackintosh ed esposta in “Ten Years of Robotic Mayhem (Including Sublet)” (2007) presso la galleria Arnolfini a Bristol, questo utilizzo teatrale della pittura è controbilanciato in entrambe le artiste da opere tradizionali su tela, che dialogano con situazioni performative costruite, come in Nova Popularna, un bar-mostra temporaneo realizzato a Varsavia nel 2003, in cui, per esempio, i performer si vestono e giocano con i modelli della “femminilità” come un’estensione di tali possibilità. A Colonia nel 2007 McKenzie collabora anche con altri due artisti alla creazione di uno showroom di interior design che include “tappeti” dipinti direttamente sul pavimento accanto alle pareti di marmo dell’artista.
La tela dipinta, vista sotto questa luce, rappresenta un complesso spazio di negoziazione tra l’immediatezza della realtà fisica e la sua potenziale trasformazione. Piuttosto che registrare l’esistenza del suo autore, questa può creare un’arena teatrale, fantastica e duplice in cui agire. Le combinazioni di pittura e performance qui citate non hanno a che fare con il primato dell’azione e non feticizzano il segno lasciato dalla mano in quanto espressione di soggettività. Al contrario, mettono in scena una varietà di approcci al pensiero grazie a ciò che le immagini dipinte possono attivare, al modo in cui il loro inserimento in una situazione può modificarla, oppure modificarne la nostra partecipazione, o ancora grazie alle sue possibilità poetiche e politiche. La pittura è considerata da questi artisti nella sua forma applicata come un medium raffigurativo: una superficie o uno schermo che media tra la visione interiore di una persona e ciò che è esterno o dato a priori. È l’applicazione raffigurativa della pittura, più che la sua muta fattività, a creare un territorio così produttivo e incantato, soprattutto da una prospettiva femminista o queer. In qualità di forma primaria di trascrizione della realtà attraverso le immagini, la pittura offre un mondo parallelo che può essere reclamato come luogo di vita o, forse, come la capacità di intervento all’interno del tessuto architettonico espanso della città. È uno spazio costruito che consente al realismo di incontrarsi con la costruzione performativa dell’identità e, in questo senso, non conosce confini nel recitare e nel fare i capricci.