“La polvere è il punto di partenza di questo racconto: la polvere del marmo che si sbriciola, e la polvere della storia.” Così scrive in catalogo Fabio Cavallucci, gettando il seme suggestivo che la polvere richiama: l’abbandono.
E l’abbandono del monumento, un aspetto della scultura, coincide con la nostra epoca globale, dove le democrazie occidentali hanno contribuito a declinare l’aspetto commemorativo. L’ingigantire forme e soggetti è una pratica molto presente nella volontà di monumentalizzazione, e “l’antigrazioso” motivo ciclopico di Thomas Houseago ne è un sicuro esempio; come la croce di 11 metri di Valentin Carron, o il The Panhandle, di Ohad Meromi. E il reperto marmoreo della lobby del World Trade Center di Cyprien Gaillard ha invece in sé la memoria. L’atto celebrativo, con l’installazione documentaristica e audiovisiva di Kristina Norman, si è riaffermato nella pietra dell’Ufo Monument; e nella solenne facciata architettonica, di matrice razionalista di Kevin van Braak, dove il materiale ligneo ne svela però la deperibilità.
L’impegnativa ricognizione “Postmonument”, con quattro sezioni (History, Present, Architecture, Workshop and Performance) in diversi spazi, fra cui segherie e laboratori dismessi, ha portato oltre trenta artisti internazionali a confrontarsi su questo tema. Una visione ampia, complessa, ma tuttavia ancora sbozzata, priva del tutto tondo nella caleidoscopica visione contemporanea, con rimpasti dei vari aspetti che spesso si sovrappongono, e con opere che, rumorosamente, innescano il dispositivo di risonanza mediatica, come nel caso della morbida e iperrealista Shit in travertino noce di Paul McCarthy.
Dal Cimitero Monumentale di Marcognano arriva una risposta al monumento come lingua viva: Maurizio Cattelan riporta nuova luce alla statuaria funeraria, dove l’effige del suo mancato monumento (per Bettino Craxi) è scolpita nel bassorilievo fra due angeli lacrimosi dalle lunghe e congiunte ali bistolfiane. Antony Gormley, ha posto 2×2, due figure realizzate grazie all’uso del design digitale, un pantografo ad alta definizione che sottrae del tutto la fatica artigianale, e che hanno, nella loro installazione, l’estraniazione di un ritrovamento archeologico del futuro. Nella sezione storica, oltre all’intervento di storia anarchica di Sam Durant, è presente Damián Ortega che con L’uovo riproduce un trasformer dei cartoons giapponesi, che in 3D riporta modelli di ingranaggi, pronti a dischiudersi in un nuovo robot. Mentre Urs Fischer, in Marguerite de Ponty, riaffronta nelle proporzioni monumentali la scultura di un modellato, che da Auguste Rodin a Costantin Brancusi ci mostra che ancora è tutto da plasmare e che la “artigianalità concettuale”, invocata da alcuni, è ben eseguita.
Nella spiaggia del Porto, Boy by the Roman Sea, la figura indifesa e fetale, è l’autoritratto da cucciolo di Terence Koh che, abbandonato YouTube e il suo lato new gothic, silenziosamente rimane sdraiato fra le cave del luogo e l’orizzonte non solo del mare, ma anche del monumento.