“Communism never happened”, il Comunismo non è mai esistito, ha scritto l’artista rumeno Ciprian Muresan su una parete di Praguebiennale 3. Un motto che, intagliato nel vinile di alcuni dischi propagandistici anni Ottanta di Ceausescu, riecheggia la freddura preferita di uno dei più grandi (e più duramente censurati) scrittori praghesi del periodo comunista, Bohumil Hrabal: “Alcune macchie possono essere rimosse solo con la distruzione del tessuto stesso”. A quasi 20 anni dalla caduta della Cortina di ferro e a soli tre dall’entrata della Repubblica Ceca nell’UE, ciò che garantisce a questa biennale palesemente low/no budget un’atipica caratterizzazione site specific sono i modi più o meno corrosivi con cui gli artisti delle ultime generazioni di questa parte d’Europa s’interrogano sulle tensioni tra passato e presente, distopia e mercificazione. Uno sforzo collettivo di venire a patti con il vuoto prodotto dall’eliminazione di vecchie “macchie” ideologiche — ancora imperdonabili, come dimostra la campagna di lustracja (cioè di pulizia) che i fratelli Kaczynskis hanno appena scatenato in Polonia — e la sindrome dell’“arto fantasma” che hanno generato nella memoria e nell’identità collettiva. Lo dimostrano, per esempio, l’ottimo Disappearance of a Tribe (2005) del lituano Deimantas Narkevicious, un film composto da fotografie in bianco e nero che documentano la vita del padre scomparso, e le spettrali immagini di teenager ribelli e fan clandestini dei Depeche Mode nella Romania di vent’anni fa, evocati da Victor Man. Così, come sottotitolo della Biennale forse non avrebbe sfigurato quel “Personal Politics” che Gergely Laszlo e Kati Simon hanno scelto per la loro selezione di giovani artisti ungheresi (Ystvan Csakany, Marcell Esterhazy, Zsolt Fekete, Aniko Lorant, Miklos Mecs e Andrea Schneemeier). Scelte da 25 curatori, oltre che dai Direttori Giancarlo Politi e Helena Kontova, e riunite sotto l’unico tetto della Karlin Hall (una vecchia fabbrica dismessa di Praga 8, un quartiere industriale lontano una buona mezz’ora dal centro storico disneyficato), le opere presentate si distribuiscono in un groviglio di 22 sezioni, talvolta difficili da distinguere, ma comunque facili da navigare, oscillando tra lavori concepiti ad hoc e altri più datati — in qualche caso, degli stessi autori. Muresan, ad esempio, s’incontra anche nella sezione “Schengen: from Kosovo to Kaliningrad”, curata da Aaron Moulton, dove presenta Rhinocéros (2006, un video in cui cinque bambini leggono ad alta voce la sceneggiatura della celebre pièce anti-totalitaria di Eugène Ionesco, capolavoro del teatro dell’assurdo), così come nella ben installata e narrativamente compatta “Der Prozess”, a cura di Marco Scotini, con una serie inedita di disegni. Citando l’omonimo libro di Kafka, questa collettiva ospita lavori incentrati sull’editing e la post-produzione della storia recente dei paesi dell’Est, capitanati dall’eccezionale Videograms of a Revolution (1992) di Harun Farocki e Andrei Ujica, un film che ricostruisce meticolosamente il ruolo dei media durante la caduta, il processo e l’esecuzione di Ceausescu — risvegliando, per associazione, le immagini atroci dell’impiccagione “in diretta” di Saddam Hussein. Da segnalare anche i dipinti di Ian Tweedy, i collage di David Maljkovic dedicati ai New Visitors “silver-surfereschi” del Memorial Park di Petrova Gora, in Croazia, un monumento anni Settanta ai caduti che già oggi sembra un relitto spaziale; i poetici viaggi nel tempo di Roman Ondak; e il modello architettonico del Motokov Building di Praga di Vangelis Vlahos, che documenta il suo passaggio da simbolo dell’economia di Stato a totem del capitale privato. Sul versante storico, oltre all’asciutta “Kinetic Art in Eastern Europe”, a cura di Getulio Alviani, due belle sezioni gemelle sono quelle dedicate al Minimalismo ceco (con numerose foto di azioni degli anni Settanta di Karel Miler, Jan Mlcoch, Petr Stembera e Jiri Kovanda) — che esprime la propria volontà di “andare contro corrente” con un gesto semplice e diretto come voltarsi su una scala mobile della metropolitana e scendere nella direzione opposta — e all’Azionismo e Concettualismo slovacco, con fotografie e testi di Julius Koller, Alex Mlynarcik, Rudolph Sikora e l’installazione di Stano Filko White Space in a White Space (1974).
“If you think this world is bad you should see some of the others” (una citazione dallo scrittore di fantascienza Philip K. Dick) di Simona Nastac, una panoramica in chiave fictional della realtà contemporanea romena, riunisce i già citati lavori di Man e Muresan, un video del giovane performer Sebastian Moldovan che gira per Bucarest alla ricerca di qualche traccia delle atmosfere che le erano valse il titolo di “Piccola Parigi dell’Est”; la Travel Guide per immigrati illegali di Matei Bejenaru e le ipnotiche auto-interviste che Ioana Nemes ha nascosto in una stanza “segreta” cui si accede spostando una libreria. “Storytellers”, curata da Gea Politi e Sonia Rosso, si apre con un testo di Jonathan Monk sul muro d’entrata: riporta un aneddoto (forse) narrato da John Chamberlain che, dopo aver visto un camion della spazzatura inghiottire una sua scultura appena finita, lasciata solo per pochi istanti sul marciapiede, riconsidera la differenza soggettiva che esiste tra arte e pattume, trash. Il rimettere in atto un racconto, un evento o una storia è la chiave dei lavori di Jeremy Deller, Luke Fowler e Mathew Sawyer, mentre Hula, l’installazione rigorosa di Massimiliano Buvoli, incornicia un atmosferico paesaggio azzurro retroilluminato — in realtà, un’area protetta a nord di Israele. Grazie alla presenza della romena Scuola di Cluj (Radu Comsa, Adrian Ghenie, Serban Savu), una vena dark di Ostalgia inonda anche l’affollata sezione “Expanded Painting 2”, altrimenti occupata da un gruppo dei soliti sospetti (Nate Lowman, Josh Smith), da alcuni bei lavori di Pablo Bronstein e Pietro Roccasalva, e da un omaggio alla “pittrice espansa” ante litteram Carla Accardi (classe 1924). Tra i pochi ad avventurarsi nello spazio, Ulla von Brandenburg, con un intervento ad acrilico su muro, e Matthieu Ronsse, che focalizza l’attenzione generale con un’installazione composta da dipinti a olio, oggetti e due grandi riflettori (spenti), posizionata strategicamente in modo da sfruttare al meglio, e quindi colmare, una “lacuna” tra due corridoi. Dedicate alla pittura sono anche “Fuck Off Macho Painter”, a cura di Andreas Schlaegel, che fornisce una panoramica — quasi tutta al femminile — della scena berlinese (Heyke Beyer, Haegue Yang, Kirstine Roepstorff) e l’energetica, ma lost in translation, “What Went Wrong”, a cura di Andrea Bellini, con opere di artisti losangelini: due murales di Mario Ybarra Jr. e una grande installazione con all’esterno i tableaux di Pentii Monkonenn (inclusi due grandi ritratti in stile “rinascimentale” del curatore e dello sponsor) e all’interno l’intervento a quattro mani di Eric Wesley e Chris Beas, una sorta di tavola altissima, ricoperta di panno verde e fogli sparpagliati, con al di sotto pile di bomboloni farciti con panna montata — una citazione dalla battaglia a torte in faccia tra i generali americani e ambasciatori russi che faceva da epilogo alla prima versione de Il Dottor Stranamore di Kubrick. Le nuove correnti slovacche e ceche sono rappresentate, rispettivamente, da “Lemon Bar” (curata da Juraj Camy e Lydia Pribisova) e “Glocal Outsiders” (curata da Jiri David e Vasil Artamonov), con lavori interessanti, tra gli altri, di Daniela Barackova, Jan Mancuska, Eva Kotatkova, Dominik Lang. Molti di loro figurano anche in un paio di collettive esterne alla Biennale: l’arguta “Form Follows… Risk”, curata da Jana e Jiri Sevcikovi, e Monika Mitasova nella duplice sede dei Karlin Studios e di Futura, un ben rodato centro d’arte contemporanea a Praga 5; e l’ampia “Hruby Domaci Produkt” (prodotto interno lordo), curata da Kristof Kintera presso la City Gallery, che rende giustizia a tanti giovani artisti altrove penalizzati dalla mancanza di spazio.