Flash Art ricorda Aldo Tambellini (1930–2020), artista visionario e pioniere del concetto di “intermedialità”, attraverso la seguente intervista pubblicata nel numero #347 Dicembre—Febbraio 2019/20.
In questo scritto del 1967 Black is the Awareness of a New Reality Aldo Tambellini (Syracuse, NY, 1930) asseriva che il Nero viene prima di qualsiasi inizio, è l’armonia della nascita, e che è nell’utero prima che una vita venga alla luce. Questo potere totalizzante che l’artista e poeta assegna al Nero, a tratti profetico, sintetizza la lungimiranza e il suo ruolo pionieristico nel ripensare il media in un senso più ampio, includendo elementi non canonici – come diapositive, video, cinema, found-footages, luci stroboscopiche, cavi – nelle arti visive. Dai primi Electromedia dove il binomio arte e tecnologia genera un immaginario ex-novo ai Lumagrams ai suoi ibridi “luoghi-environment” – Gate Theatre, Black Gate (il primo electromedia theatre a New York) – Aldo Tambellini si racconta in questa conversazione con Agnieszka Gratza a cui segue un progetto visivo composto da una selezione di pitture ad intensità luminosa e poesie a cura dell’artista.
AGNIESZKA GRATZA: Ti hanno descritto come un pioniere dell’intermedia art, termine che ottenne una certa diffusione dalla metà degli anni ‘60. Intermedia fu utilizzato inizialmente dall’artista Fluxus Dick Higgins per descrivere lavori e azioni che non appartenevano a una classificazione ben definita, ma rientravano tra i media riconosciuti dalle arti visive. L’happening, per esempio, prevedeva collage, musica e teatro. Quanto è utile questa categorizzazione per inscrivere la tua pratica collaborativa e interdisciplinare di quel periodo?
ALDO TAMBELLINI: Gli happenings erano più di un’esperienza teatrale, per me che ero interessato a combinare una varietà di espressioni artistiche nel mio lavoro. Non ho mai utilizzato la parola “intermedia” in relazione alle mie produzioni di quegli anni. Quelli che hanno visto i primi lavori in quella direzione, in quel periodo, non sapevano come categorizzarli. Per descriverli, più tardi mi sono avvicinato al termine electromedia perché molti dei media che stavo utilizzando si basavano sull’elettricità. Nelle mie performance, film senza-camera venivano proiettati da uno o più proiettori a 16 mm e le videocassette erano riprodotte sui monitor. Ho usato proiettori Kodak Carousel per delle diapositive dipinte a mano che ho chiamato “lumagrams”. Le poesie recitate in queste performance di solito erano riprodotte da un mangianastri o da un boom box posizionato proprio sul palco. Per me l’electromedia è la fusione di varie forme artistiche e media – poesia, suono, pittura, danza e scultura cinetica.
AG: Quando hai iniziato a lavorare in questo modo? Ti andrebbe di ricordare alcuni fra i tuoi primi collaboratori?
AT: Nel 1963 ho preso alcune diapositive fotografiche che avevo precedentemente scartato per alterarle perforandole, graffiandole con cerchi e spirali, e dipingendole di nero. Queste diapositive sono state proiettate dal terrazzo di un palazzo sulla facciata di un altro edificio situato sulla 6th Street Avenue D, nella Alphabet City del Lower East Side. Ero soddisfatto del risultato e avevo iniziato a pensare a come avrei potuto utilizzare le diapositive in modi diversi. Questo potrebbe essere considerato l’inizio effettivo del mio coinvolgimento con il multi-media. Più tardi, un mio amico degli anni alla Syracuse University, Tom Dent, si trasferisce nel mio quartiere, nel Lower East Side, e così ci siamo riavvicinati. Altri poeti afroamericani erano soliti ritrovarsi nel suo appartamento dove potevano leggere poesie e dove io proiettavo per loro alcune diapositive dipinte a mano (anche la danzatrice Carla Blank portata da Norman si esibì in quel contesto). Questa è stata la mia prima performance intitolata Black, era un lavoro ancora in corso d’opera; ogni nuova performance sarebbe poi cresciuta e “energizzata” dal contributo dei performer. Il mio preferito era Calvin C. Hernton (uno degli Umbra poets), allora editor della rivista Umbra, che era presente nelle successive “electromedia performance”. Oltre ai poeti, ho collaborato con diversi ballerini e musicisti. Divenni amico anche di Beverly Schmidt che era stato il direttore della Alwin Nikolais Dance Company. Il musicista jazz Calo Scott suonò il basso in molte delle mie performance, inclusa Black Zero alla Brooklyn Academy of Music, dove compose un doppio spettacolo con Carolee Schneemann parte del festival Intermedia ‘68.
AG: Scrivendo su Moondial (1966) al Bridge Theatre su Village Voice, Jonas Mekas affermava che “l’opera rientra nella categoria che è conosciuta (per ora) come intermedia, in questo caso la danza, più diapositive, più film, più suono, più costumi.” La performance è stata rimessa in scena nel 2012 nel Tanks della Tate Modern a Londra. Ci racconteresti la genesi di Moondial e la differenza col suo reenactment?
AT: La prima di Moondial, con la danzatrice Beverly Schmidt, è stata realizzata con un budget ristrettissimo. Nessuno dei performer è stato pagato per quella serata. Ho progettato io stesso il costume per Beverly, che consisteva in una lunga tenda di plastica trasparente alla quale avevo attaccato dei piccoli piatti d’argento usati per vendere le pizze. Lo scopo dei piatti era di riflettere la luce dai Lumagrams e di spostare il film, come la danza, sul palco. Per completare il costume, ho ideato un copricapo per la ballerina in cui cavi e specchi mobili generavano un effetto cinetico. Ho chiesto a Beverly di collaborare con me e avevo tempo da dedicarle, così questa relazione è stata più familiare rispetto a quella con Dallah Touré, la sua controparte alla Tate Modern.
Alla Tate, avevamo però un budget che ci ha permesso di avere sia costumi che copricapo realizzati professionalmente, ma con un tempo per le prove limitato. Il bassista che ha performato a Londra aveva una formazione più classica ma era incredibile nell’improvvisazione, e ha aggiunto molto alla performance. La più grande differenza è dovuta probabilmente all’effettiva dimensione del palco.Il Tanks ha uno stage molto ampio, che ha dato a Touré l’opportunità di essere creativa nell’utilizzare lo spazio e di muoversi molto. Lo spazio originale invece, al Bridge, aveva dimensioni limitate e Schmidt si è esibita al centro usando movimenti più delicati e sottili.
AG: Approfondirei ora i luoghi dove hai esposto i tuoi lavori multimediali. Mentre il Gate Theatre sulla 2nd Avenue e la 10th Street che hai creato con la tua compagna di allora, Elsa, proiettava principalmente film sperimentali; il Black Gate Theatre, che hai co-fondato con Otto Piene membro del Gruppo Zero, diventò una sede dedicata specificamente all’electromedia.
AT: Il Black Gate fu il primo teatro Electromedia di New York. Io e Otto Piene unimmo le forze nel 1967 per aprire questo spazio sopra al Gate Theatre. Non aveva finestre, il pavimento era dipinto di nero, con cuscini (sempre neri) sparsi qua e là dove il pubblico poteva sedere. Il Black Gate era un luogo per installazioni e performance, dove giovani artisti audaci potevano testare nuove idee e collaborazioni. Yayoi Kusama ha fatto lì Obliteration, la sua prima performance, provocando un certo furore dato che i funzionari della città hanno pensato fosse uno spettacolo erotico. Anche Nam June Paik ha performato lì, così come Charlotte Moorman che si è chiusa dentro una borsa di plastica e suonava il violoncello. Il compositore e sound artist giapponese Takashi Kosumi ha presentato un’installazione che comprendeva dei radio transistor, invece il collettivo USCO presentava palloncini come schermi di proiezione. L’inaugurazione includeva due dei nostri lavori: Proliferation of the Sun – di Otto – e Blackout, il mio.
AG: Recentemente ho trovato una recensione di quell’anno (di tale Sal Fallica) di queste due performance, intitolata Intermedia al Gate. L’autore ti definisce “il guru dell’intermedia” e, aumentando la lirica riguardo Blackout, scrive “L’arte qui è totale: si muove, ha un suono; essendo sia visuale che sonora, con questa bella forma unica, siamo trasportati in un altro media, l’Intermedia, i cui effetti hanno una straordinaria e maestosa spiritualità.” L’anno seguente, che segna l’inizio del festival Intermedia ’68, tu e Piene avete preso parte insieme al Black Gate Cologne, su invito della WDR-TV – il canale TV educativo a Colonia. Che forma ha preso poi la collaborazione?
AT: In quel caso la nostra collaborazione consisteva principalmente in uno scambio di lettere e telegrammi in cui progettavamo quello che avremmo poi realizzato. Il pubblico sedeva sul pavimento, proprio come avrebbe fatto al Black Gate Theatre. Il contributo di Otto includeva dei tubi di polietilene i quali, una volta gonfiati, inducevano gli spettatori ad alzarsi e a giocarci. Aveva anche delle sculture luminose, che ha fuso con le mie proiezioni multimediali, oppure film e diapositive. Io ho esposto Black TV, che ha vinto il premio all’International Short Film Festival Oberhausen nel 1969. Il film rifletteva la situazione socio-politica di fronte all’America degli anni ‘60, quindi l’assassinio di Robert F. Kennedy, la guerra del Vietnam, le manifestazioni per la parità dei diritti e la brutalità della polizia, fra le altre cose. Il Black Gate Cologne è ricordato nella storia del film e del video come il primo programma prodotto da artisti in uno studio televisivo.
AG: Il tuo trasferimento a Cambridge, Massachusetts nel 1976 come professore associato del Centro per gli Studi Visuali Avanzati del MIT (diretto da Otto Piene), ha segnato un cambio di direzione visibile nei progetti come Picturephone Event (1977) e Communicationsphere, un network piuttosto attivo negli anni ‘80.
AT: Poco dopo essere diventato professore associato al MIT, ho iniziato a tessere una relazione fra arte e tecnologia. Con i miei studenti ho formato un gruppo chiamato “Communicationsphere”. Come collettivo, avevamo l’intenzione di creare un network in tutto il mondo per artisti, ingegneri, tecnici e studenti. Ero eccitato all’idea di avere degli scambi culturali e informativi con altri luoghi del mondo. La comunicazione avveniva soprattutto attraverso un lento meccanismo di scansione, il quale connetteva due o più località che possedevano lo stesso equipaggiamento. I messaggi o le immagini venivano trasmessi avanti e indietro o fra i membri del gruppo attraverso cavi telefonici; potevamo scansionare lentamente anche lo schermo della posizione di ricezione.
AG: Oltre alla sperimentazione con l’uso creativo della telecomunicazione, hai ricorso sempre di più alla poesia. Nel 2017 è stata pubblicata un’antologia delle tue poesie scritta tra il 1946 e il 2016, intitolata Aldo Tambellini: Listen, con un’introduzione di Ishmael Reed, uno degli scrittori di Umbra. Ritieni che la poesia sia indipendente dalla tua ricerca come artista visivo?
AT: Ho iniziato a scrivere poesie a diciassette anni. I miei scritti sono stati pubblicati in numerose riviste e antologie. Gli “Umbra poets” – che rappresentavano il conflitto razziale e la voce del Blackness – erano sempre in primo piano nelle Electromedia performance. Ho continuato a scrivere poesie autonomamente, ma sono stato definito poeta più tardi, dopo essermi trasferito a Cambridge. Come altri aspetti del mio lavoro, la poesia è sperimentale rispetto al formato e ai contenuti socio-politici. Riflette la società in generale, trattandola come fa con i poveri e gli emarginati, gli anziani e le persone con problemi psicologici. È uno sguardo crudo sulla vita. Nel 2005 ho realizzato un film intitolato Listen, – che è stato premiato al Boston Underground Film Festival nella cornice del cinema sperimentale dell’Anti-war – utilizzando immagini registrate dalla televisione durante la prima guerra irachena e le mie poesie Anti-war, che ho recitato personalmente.
AG: Secondo te cosa ha innescato questo evidente rinnovato interesse per il tuo lavoro, culminato con Retracing Black nel Tanks della Tate Modern (2012), la retrospettiva della serie dei Black Film al Centre Pompidou, sempre nel 2012, e ancora il tuo contributo al Padiglione Italia alla 56a Biennale di Venezia o la tua mostra personale “Black Matters” allo ZKM di Karlsruhe nel 2017?
AT: Parto dal presupposto che, soprattutto oggi, c’è un’intera generazione di giovani trentenni disincantata dal mondo e dalla finzione di tutto ciò che li circonda – fake news, falsi impegni, falsa arte, falsa politica. Non puoi ingannarli perché loro vedono attraverso la disonestà e stanno, a loro modo, cercando qualcosa di reale. Questa generazione a cui mi riferisco sta guardando ancora agli anni Sessanta per identificare cos’era importante e cosa invece è stato messo da parte, ovvero coloro che non hanno ottenuto il riconoscimento che meritavano. Il mio nome ha ottenuto dei ringraziamenti paradossalmente grazie ai social media e ai registi e agli artisti che mi hanno contattato, invitandomi a prendere parte a questa riscoperta. L’altro fattore che ha aiutato immensamente è avere intessuto una relazione di lavoro e collaborazione con i due curatori Pia Bolognesi e Giulio Bursi. Entrambi hanno cercato nuove e più appropriate sedi espositive, incoraggiandomi a produrre nuovi lavori, tenendomi attivo e concentrato. Bolognesi inoltre ha completato un libro sulla mia pratica, The Shape of Things to Come, che verrà presto pubblicato con Archive Books in Germania e che non vedo l’ora di vedere.
AG: E l’arte del futuro, invece, che strada percorrerà secondo te?
AT: Nel 1961, parlando di pittura scrissi: “Siamo i Primitivi di una Nuova Era. ‘Una volta un uomo entrò nello spazio e vide’, come disse il cosmonauta Alexei Leonov, ‘Un cielo nero come l’inchiostro’ e sperimentò l’assenza di gravità. Sentivo che l’artista dovesse rispondere e relazionarsi diversamente all’Universo. Non ci sono linee rette nel cielo (come recita una mia poesia) e non ci sono direzioni. L’uomo galleggia senza meta e senza nessuna attrazione gravitazionale. Sarà questo che sperimenteranno gli artisti che saranno invitati a viaggiare fuori dall’atmosfera terrestre? Sono tenuti a tornare con il desiderio di creare attraverso nuovi modi”.