Maria Rosa Sossai: Ciò che mi piacerebbe indagare con te sono innanzitutto le ragioni che ti hanno spinto a concentrare la tua ricerca soprattutto sulle immagini in movimento. Per farlo, partirei da una riflessione di Paul Virilio su quello che egli chiama “un darwinismo delle immagini”, fenomeno imposto dalla pubblicità, la quale richiede immagini sempre più otticamente corrette, efficaci e produttive. Nell’idea darwinista, come sappiamo, i più forti sopravvivono. L’efficacia e la spettacolarità delle immagini è garantita oggi dalla proiezione, dall’uso sapiente della luce e dall’alta definizione. Il timore del filosofo è che l’ottica darwinista sia esportabile anche nelle arti visive. E ciò comporterebbe l’eliminazione di alcune forme d’arte a favore di altre tecnologicamente più aggressive e violente che anestetizzano lo sguardo dalla violenza del sociale. Pensi che ci siano degli artisti che scelgono le immagini in movimento perché le ritengono oggi vincenti?
Rä di Martino: Sinceramente non saprei. Posso parlare di come è nato il mio interesse per le immagini in movimento, che non deriva dal desiderio di usare il mezzo artistico più efficace o aggressivo, bensì da una riflessione sugli effetti che esse hanno su di me, come anche sugli altri, ma anche da una genuina passione per il cinema e per il video. Il fatto di condividere con la pubblicità e con la televisione il mezzo espressivo è in realtà un deterrente, un po’ come lavorare in un campo minato, dove, se non si sta attenti, ci si ritrova senza volerlo a fare citazioni o a richiamare atmosfere e immagini improprie. Ma lavorare col video e con la pellicola comporta anche una responsabilità in più, perché richiede costantemente lucidità e consapevolezza verso tutto ciò che ci circonda.
MRS: Ho riscontrato che tutti i personaggi dei tuoi film hanno dei tratti in comune, come l’essere posseduti da ossessioni, paure, idiosincrasie; sono la manifestazione di un disagio esistenziale o i portatori di una nuova lettura del mondo e della costruzione di una nuova identità?
RdM: Appartengono a due diverse tipologie: considero i personaggi di Not360 (2002), La Camera (2006) o The Red Shoes (2006) degli strumenti o forse dei ventriloqui che veicolano frasi provenienti da altri contesti, nella loro qualità di elementi formali del video, come lo può essere il movimento della macchina da presa o la location. Poi ce ne sono altri che hanno invece un loro carattere e una loro storia, come ad esempio l’uomo nel video Cancan! (2004) o il protagonista di The Dancing Kid (2005). Le loro azioni sono fughe dal quotidiano, attivate di solito da una canzone o dalla scena di un film, quindi da memorie provenienti dal contenitore mediatico e che sembrano essere più forti di quelle personali o forse meno dolorose.
MRS: Potresti parlare dei tuoi ultimi lavori?
RdM: I progetti su cui ho lavorato quest’anno sono principalmente tre e piuttosto diversi l’uno dall’altro. Il film The Red Shoes, girato in 16mm, è un’unica panoramica di un paesaggio da favola: sotto una cascata in una foresta notturna due ragazzi si baciano. Sono entrambi giovanissimi, in quel momento della vita in cui si è ancora bambini ma già teenager. Nel film uso tutti i trucchi del cinema per creare un’atmosfera avvincente: la panoramica, un uso sapiente della fotografia, l’effetto day for night e l’azione in reverse, in modo che l’acqua della cascata sembra innalzarsi verso l’alto. Al momento del bacio si coglie un lieve imbarazzo, dovuto alla giovane età dei due attori. Vorrei che il lavoro, proiettato in 16mm in loop, con un breve e improvviso momento di nero, sembri il frammento di un film già visto, un finto found footage. L’installazione Make ’Em Laugh è costituita da otto monitor posti su alti piedistalli neri che formano un cerchio all’interno del quale entra lo spettatore. Sui monitor si vedono clip di materiale manipolato, proveniente da una scena del film Singing in the Rain e precisamente la sequenza nella quale Donald O’Connor esegue un’incredibile performance danzante, cascando di continuo e rotolando su se stesso. Ho trasformato le giocose cadute del film originale in raggomitolamenti isterici e cadute ripetute senza fine. A questi movimenti un po’ deliranti ho accostato quattro fotografie scattate l’anno scorso per caso a New York di notte, di un uomo che, probabilmente sotto l’effetto di droghe, cade in ginocchio per raccogliere delle banconote che gli sono cadute dalle tasche: troppo debole e rallentato nei movimenti, si piega assumendo una posizione fetale, simile a quella dei fedeli musulmani durante la preghiera, con la testa che tocca a terra e lì rimane, immobile. Infine, sto realizzando una serie di playful video, dal titolo “Sing-a-long”, di cui ho finito i primi due capitoli: in “Sing-a-long #1 (When a man and a woman listen to ‘when a man loves a woman’ and they don’t know each other)”, come sottolinea il titolo, un uomo e una donna che non si sono mai visti prima, si guardano intensamente, mentre da un piccolo stereo si sentono frammenti della canzone When a Man Loves a Woman. La scomparsa del suono permette ai due performer e agli spettatori di continuare a sentire la canzone nella loro testa, una specie di sing-a-long mentale. In “Sing-a-long #2 (A perfect day vs tomorrow, literally)” la canzone e il testo di Perfect Day di Lou Reed e Tomorrow dal film musical Annie si sovrappongono, mentre i testi di entrambe scorrono uno accanto all’altro, come fosse un Karaoke. A volte le due canzoni suonano all’unisono, in altri momenti stridono in un contrappunto, così come stride il mood ironico e distaccato di Lou Reed, accostato alla melensa e romantica canzone hollywoodiana che invoca un domani migliore.