Né astratto né specifico, l’oggetto della pratica di Raimundas Malašauskas assomiglia a uno di quei volti non esattamente stilizzati né esattamente propri che si incontrano a volte sui muri di Palermo, che non possiedono abbastanza informazione per individuare un soggetto ancorabile a uno e un solo corpo, eppure eccedono — come in un’esuberanza della parete e insieme del gesto — la matrice euclidea del simbolo stilizzato. Che quest’oggetto sia un testo o un gesto, una mostra o un’opera, esso costituisce il distillato dello stesso processo che ne disloca e rigenera altrove, a volte irriconoscibili, le coordinate spaziali e temporali, e di cui modula il tono per far segno verso una voce molteplice (come nel caso di Paper Exhibition. Selected Writings by Raimundas Malašauskas, 2012, una raccolta di scritti rimodellata da sedici editor lasciati liberi di intervenire sui testi).
Una temporalità diffusa e reversibile abita i personaggi transitoriamente occupati da Malašauskas. Come se i loro nomi fossero abitazioni vacanti in cui invitare altri artisti, essi si espandono ad accogliere, e articolare, le vicende di personaggi più o meno attendibili quali John Fare, il performer d’invenzione che avrebbe orchestrato il proprio smembramento, disciolto nelle varie versioni della sua storia e adottato da Malašauskas nel 2007; Clifford Irving, l’autore della falsa biografia del magnate Howard Hughes, che figura nell’F for Fake di Orson Wells e si situa al di là della possibilità di smentire la sua stessa implicazione nell’omonimo show autorganizzato da Malašauskas; e Mardi, l’abitante di un luogo-mostra dal titolo “Repetition Island”, la cui unità temporale consiste in una giornata vissuta da una lunga lista di artisti, che continua ad accadere per cinque giorni, ripetuta ma a suo modo differente. Come il volto accennato, così anche il nome offre la possibilità di costituire uno spazio in cui il singolo si sfrangia e la temporalità di un’esistenza che pareva compatta dispiega una poliritmia della quale il nome stesso non costituisce che l’involucro esterno.
Se il nome di questi personaggi si fa ospitale per una serie di esperimenti espositivi, in un altro progetto intitolato “The Hypnotic Show” è la mente dello spettatore a funzionare come una sede espositiva per le opere e mostre che vengono esperite sotto l’ipnosi indotta da Marcos Lutyens. In una lunga serie di sedute tenutesi in varie città ed estensivamente a Kassel nel corso di dOCUMENTA (13), è stato possibile percorrere mentalmente lo scenario immaginato per esempio da Pierre Huyghe; andare a ritroso verso il momento in cui un profumo è stato emesso; e imbattersi nelle palle di neve vendute da David Hammons in una strada di Manhattan nel 1983, facendone sotto ipnosi un’esperienza probabilmente più sensibile di quella ricavabile dall’illustrazione di un libro.
“The Hypnotic Show” può essere inteso come il ritratto in corso di una mente collettiva, e “The John Fare Estate” (GB Agency, Parigi 2007), “The Clifford Irving Show” (Kadist Art Foundation, Parigi, 2009 – Objectif Exhibitions, Anversa, 2010) e “Repetition Island” (Centre Pompidou, Parigi, 2010) possono essere letti come ritratti nel campo espanso, ovvero ritratti in forma di mostra, che ridefiniscono il soggetto come diffuso e poliritmico e fanno di ciò che non gli è proprio la sua cifra più propria. La mostra “Done — Exploring Fatal Holography” (Tulips and Roses, Bruxelles, 2011), invece, costituisce un autoritratto e al tempo stesso un ologramma in forma di mostra — il ritratto del curatore come restituzione del processo della mostra — che segna anche l’indeterminarsi, per Malašauskas, del confine tra pratica curatoriale e pratica artistica. Non sorprende che Malašauskas abbia trovato nel dispositivo ologrammatico la struttura possibile per la realizzazione del suo stesso autoritratto. Capace di contenere l’informazione del tutto in ogni suo punto, l’ologramma non deve rispondere al principio olistico di un tutto conchiuso e indivisibile, sicché due sue metà sarebbero ancora in grado di restituirne la visibilità alla stessa maniera in cui una scarpa capace di calzare a destra e sinistra garantisce la propria calzabilità a entrambi i piedi, e la percezione altalenante dei due marciapiedi identici di una stessa strada suggerisce il principio di reversibilità del percorso inerente al camminare. L’ologramma — un’immagine “reale” che fa sì che il processo o l’oggetto siano ancora qui — è portatore di una dimensione in cui sfuma la separazione tra rappresentazione e realtà, sicché le consuete categorie del dentro e fuori — che già l’ipnosi tentava di scardinare — saltano in favore dell’apertura di uno spazio di indecidibilità tra soggetto e oggetto.
Se è possibile pensare un’esistenza ologrammatica è perché tecnicamente l’immagine che si imprime nell’olografia arriva alla lastra già sfrangiata secondo un pattern di interferenza: multidirezionata come lo sono gli influssi e le influenze che compongono un’idea un’opera un artista o uno scrittore, l’immagine olografica contiene in sé una molteplicità di prospettive. La stessa molteplicità in gioco nelle interpretazioni suggerite settimanalmente da diversi interpreti alla ricerca di passati, e forse futuri, usi degli oggetti desueti raccolti nel “Black Box” per dOCUMENTA (13)(Kassel, 2012), in un cubo specchiante disegnato per Malašauskas da Gabriel Lester e Mariana Castillo Deball, ospitante strumenti scientifici dalla funzione ignota.
Un fisico quantistico ha suggerito l’idea che i sogni lucidi siano forme di ologrammi interni, esistenze parallele come quelle che sarà dato incontrare nel Padiglione “oO”, curato da Malašauskas per la prossima Biennale di Venezia.