Reality non parla di reality show, anche se il suo protagonista vuole entrare nella casa del Grande Fratello. Reality parla letteralmente di reality, e non nella sua corretta traduzione inglese, cioè di realtà, ma in quella curiosa e goffa accezione che in Italia diamo del termine: di una realtà mediata e raccontata da un mezzo di comunicazione e da un dispositivo di messa in scena del reale, all’interno del quale non è importante assistere “davvero alla realtà”, ma piuttosto che qualcuno ci dica che ciò a cui assistiamo è la realtà. Quindi, in fin dei conti, Reality parla del dispositivo dei reality show, e del cinema. E dei sogni. Non ha senso cercare nel film una lettura del nostro sistema sociale, e men che meno politico. Anche se, dopo Gomorra (che è esattamente la stessa cosa: non importa che sia davvero un racconto di camorra, ma che ce lo dica Saviano…) ne avevamo un disperato bisogno, e anche se il GF è uno dei luoghi di incandescenza più interessanti del nostro sistema Paese, e saremmo stati molto felici che ce lo raccontasse Matteo Garrone. Non ha senso perché a Cannes Matteo Garrone era così impegnato e ossessionato dall’idea di negare qualunque intenzione di raccontare il nostro paese che, se ci crede lui, allora dobbiamo farlo anche noi. Reality parla di un uomo povero di spirito, Luciano, talmente ossessionato dal sogno da cambiare il suo modo di vivere la realtà. Dietro a Reality c’è Lo sceicco bianco di Fellini (la perdita dell’innocenza di fronte alla meraviglia del cinema, e la disillusione dentro al suo svuotamento), e soprattutto c’è Bellissima di Luchino Visconti. È con Visconti che Garrone ha il suo dialogo più emozionante e più toccante. In entrambi i casi c’è una bambina inconsapevole che funziona come un vettore emozionale per un adulto: la Magnani di Bellissima vuole riscattare il suo scacco di vita attraverso la notorietà della figlia, in Reality Luciano partecipa al casting del GF, apparentemente solo per far contenta la (stessa) figlia. In entrambi i casi la realtà è vista dall’alto: il lungo piano sequenza con cui Garrone riprende la carrozza degli sposi in apertura e la vertiginosa ascesa con cui saluta dall’alto Luciano penetrato nel sogno (non nella realtà) della casa del GF sono vedute aeree, che portano all’iperbole le riprese dall’alto con cui Visconti introduce la sequenza del provino a Cinecittà. E l’idea di portare a protagonista Aniello Arena, straordinario corpo di realtà che ha imparato l’arte dell’attore in carcere e che ha avuto bisogno di un permesso speciale per interpretare il film, assomiglia ancora a un’iperbole di Neorealismo crudele.
Luciano ha il sogno di vivere un sogno. Luciano vuole essere visto da tutti (non per diventare famoso, ma più modestamente per diventare ricco e sistemare la famiglia-tribù), e per questo perde la ragione (la realtà) e immagina di essere tenuto sotto costante osservazione (il reality) dagli emissari della produzione. E questo lo fa diventare, paradossalmente, più buono: regala i suoi averi ai poveri, come San Francesco, e abbandona la truffa dei robot-elettrodomestico. Come Pinocchio crede che un grillo abiti la sua casa, ma per guardarlo e non per parlargli. Un Pinocchio al contrario, che ha già conosciuto il paese dei balocchi, che qui prende i contorni dell’albergo luna park in cui i poveracci si sposano con le colombe e i camerieri in costume, o della spiaggia con lo scivolo e i gonfiabili. Un Pinocchio al contrario che insegue Lucignolo (Enzo, ex concorrente del GF, che impartisce benedizioni laiche e vola demoniaco come un Faust in lamè dorato sul rito pagano di una discoteca), anche se Lucignolo non lo vuole tra i piedi, e chiama la security. Per inseguire il suo sogno Luciano perde il senno, forse gli affetti, di certo la dignità.
E qui sta l’errore concettuale di Garrone. Grave, soprattutto perché al servizio di un film al contrario molto bello. Intendiamoci: Garrone è un regista straordinario, e Reality è, a tratti, un piccolo gioiello, con intuizioni superlative. Su tutte il racconto di uno spazio (un palazzo, una piazza, un quartiere, una casa) che nel suo spietato realismo è l’antidoto perfetto alla casa televisiva. E una capacità di abitare il genere della commedia di costume (di mostri, di parenti, di caratteri) che è l’antidoto perfetto alla messa in scena dei personaggi e delle dinamiche narrative della casa televisiva. Ma il cinema, per Rossellini e Fellini, è un sogno, ed è un sogno buono, per il quale vale la pena di perdersi, di scivolare in basso e anche di morire. Perché il cinema è in grado di costruire la realtà (e non solo di esibirla o di metterla in scena), e di costruire dei sogni (cioè un livello eccentrico alla realtà) e di trasformarli in incubi. Perché il cinema è arte, cioè trasfigurazione della realtà, e di fronte all’arte l’uomo, l’individuo, può perdere il senn(s)o proprio perché ha poco senso.
Il reality show televisivo no: è un sogno cattivo. Come il brutto cinema e la brutta arte. Muove denaro, emozioni, piacere e produce, indubitabilmente, felicità. Ma non è un sogno. Ecco perché Visconti e Fellini sono due invitati sbagliati a questa festa di matrimonio. E non basta ambientare i casting del GF a Cinecittà (dove non si fanno film da tempo).
Forse il reality show meritava di essere trattato come i protagonisti di Gomorra. Perché nella rappresentazione del reale e dei sogni, il reality, sta al cinema, e all’arte, come l’atteggiamento mafioso sta al rispetto delle regole. Ben inteso: lo statuto concettuale del reality show, non i singoli prodotti e men che meno il povero GF, che ormai è più conseguenza che causa di tutto ciò che gli sta intorno. Rileggere, prego, due o tre volte l’ultima frase per capire bene cosa c’è scritto, perché se qualcuno inferisce che il “GF è la mafia” è più povero di spirito di Luciano. Ma in fondo: non guardiamo tutti (almeno) un reality in televisione? Certo che sì. E non vorremmo fare un sacco di soldi lavorando per (almeno) un reality e sfruttando i sogni sbagliati di un poveraccio come Luciano? Certo che sì. Perché, forse non abbiamo tutti noi, tutti i giorni, atteggiamenti mafiosi? Certo che sì. Io, almeno, lo farei. Ma io sono cinico, e scrivo stronzate snob su una rivista snob. Non sono Matteo Garrone e non faccio film.