“Rethinking Nature” inaugura un nuovo format per il Madre e include nella proposta curatoriale una piattaforma multidisciplinare e la programmazione di eventi laboratoriali per innescare un’ulteriore forma di dibattito all’interno del museo. Frutto di due anni di lavoro della curatrice Kathryn Weir insieme a Ilaria Conti, la mostra riflette sulle possibilità con cui l’arte contemporanea può contribuire a dei “processi culturali e politici in grado di ripensare collettivamente i fondamenti etici dell’esistenza nel mondo, facendo luce sulle forme di interconnessione che legano l’intero pianeta”. Sono cinquanta le opere esposte di quaranta tra artisti e collettivi che provengono da ventidue paesi del mondo, in un percorso espositivo molto consistente e molto (forse troppo?) articolato.
Tre tavole della serie “Paradossi dell’abbondanza” (2020-2021) di Marzia Migliora aprono la mostra con il racconto del ciclo di vita di tre alimenti di uso comune, lo zucchero, il caffè e il cacao: cosa è cambiato sulla Terra quando a un certo punto della storia il raccolto è diventato un prodotto?
A seguire, un primo nucleo di opere sviscera in una prospettiva storica le pratiche estrattive e produttive come l’atto incessante di una decisa affermazione antropocentrica, in cui lo ‘sviluppo’ coincide con un’operazione di sottrazione – di perdita di suolo, di valori nutrizionali, di fauna selvatica, di etnie culturali, di diritti dei lavoratori… – finalizzata a un guadagno esclusivamente economico. È una forma di controllo che si è normalizzata lentamente nella storia dell’umanità. È il risultato di un processo politico iniziato in Europa almeno cinque secoli fa e che è tuttora in corso, come documentano i Weather Reports (2018-2021) del Karabbing Film Collective, collettivo indigeno australiano attivo dal 2018. E così come nel Quattrocento i colonialisti modificavano le proprie cartografie per celare ai posteri i mondi che avevano distrutto, l’alterazione sempre più profonda del nostro ecosistema resta spesso poco denunciata. La speculazione economica si muove di pari passo al cambiamento climatico, anzi ne approfitta, concretizzando nuovi sistemi di sfruttamento ambientale e sociopolitico, a partire dall’ingombrante cloud di big-data fino, ad esempio, alla nuova rotta commerciale tra Cina e Europa, resa possibile dall’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai artici con l’impiego di tecniche rompighiaccio come approfondisce Elena Mazzi nell’installazione video The Upcoming Polar Silk Road (2021).
Nella messa in discussione dei fondamenti etici alla base della cultura umana, una serie di progetti artistici, con tante voci, approfondisce un altro importante aspetto della relazione uomo- natura: la spiritualità. Come l’installazione video AmaHubo (2018) di Buhlebezwe Siwani racconta che in Sud Africa la soppressione delle pratiche spirituali delle comunità autoctone ha seguito la veloce espropriazione della delle loro terre natie, le sedici opere pittoriche Defend Sacred Mountains (2018) dell’attivista Edgar Heap of Birds rivendicano la mancanza di rispetto per la sacralità di alcuni luoghi nella tradizione dei nativi americani. O ancora nel video Karikpo Pipeline (2015-2021), Zina Saro-Wiwa richiama attraverso l’uso della performance le tradizioni della cosmologia Ogoni sui resti delle infrastrutture petrolifere che hanno impoverito il delta del Niger.
La mostra include anche pratiche artistiche che restringono lo sguardo di indagine sulla scala locale. L’opera site-specific Pillar (2021) di Alfredo e Isabel Aquilizan che attraversa a cascata i tre piani del museo, è il risultato di una pratica creativa di inclusione sociale condotta a Napoli con la cooperativa Dedalus. Mentre l’installazione scultorea Terra dei Fuochi (2021) di Yasmin Smith si muove dall’analisi della storia ambientale dell’area casertana e dalla sperimentazione in corso di pratiche di fitorisanamento dei luoghi contaminati: il suolo ha un’incredibile capacità di rigenerarsi dalle attività distruttive dell’uomo, anche in maniera autonoma e del tutto naturale. È una sorta di bio-tecnologia, un’autoguarigione ecologica che si manifesta di per sé, nel tempo, e l’uomo vi riveste un ruolo passivo, completamente inutile.