“La scultura è per il tatto, la pittura è per l’occhio. Volevo fare scultura per l’occhio e pittura per il tatto”1, così dichiarava Richard Artschwager alla fine degli anni Ottanta. Questa indagine fra materialità, spazialità e texture sperimentata in un unico oggetto, insieme pittorico e scultoreo, è chiaramente visibile nelle opere scelte per la mostra dedicata all’artista americano alla galleria Gagosian di Roma. L’esposizione presenta un gruppo raro e significativo di lavori appartenenti a un arco temporale che va dal 1964 al 1987. L’opera dell’artista è così nuovamente visibile in Italia, dopo la prima esposizione antologica offerta al Mart – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, fra il 2019 e il 2020, curata da Germano Celant. Nella personale di Artschwager da Gagosian le opere selezionate ricostruiscono puntualmente la ricerca fra pittura e oggetto definita da Celant un’esperienza che, nelle opere dell’artista, avvicina gli opposti facendoli coabitare. La stessa formazione di Artschwager parla di questo passaggio, insito nei suoi lavori, fra arte e artigianato e fra opere pittoriche e opere oggettuali: studia con il pittore Amédée Ozenfant, ma si dedica agli inizi degli anni Cinquanta, prima del suo debutto come artista, anche alla produzione di oggetti.
La coabitazione fra scultura e pittura è dichiarata fin dall’inizio del percorso espositivo: in alto a sinistra viene disposto all’angolo, come richiesto dalla stessa forma dell’opera plastica, Untitled (1967-1984), in contiguità, nella medesima parete, con l’acrilico su celotex Weaving (1969).
Il visitatore deve così subito confrontarsi con le due componenti tecniche privilegiate dall’artista a partire dall’inizio degli anni Sessanta: l’utilizzo della formica per le sue sculture e del celotex, materiale ruvido, fatto di fibre vegetali impastate con agglomeranti e pressate, utilizzato come base per i suoi acrilici.
Il prosieguo nella prima sala della galleria conferma la dialettica propria delle opere di Artschwager. Accanto all’imponente Sliding Door (1964) – un armadietto artigianale che diventa oggetto di matrice concettuale – si affiancano Double Color Study (1965) – doppio motivo compositivo che fonde la struttura della cornice con quello della tela –; e due acrilici, uno dei quali, Building#16 (1966), consiste nella riproduzione pittorica di una fotografia del Campidoglio di Washington. Così, se nelle sculture di Artschwager prevale la componente visiva tramite le texture realizzate sulla formica, la linearità delle facciate aggettanti, l’elemento della superficie che raddoppia la sua evidenza visuale attraverso la proiezione dell’ombra nello spazio espositivo; nella pittura, invece, l’utilizzo del celotex rende la trama dell’acrilico una tessitura materica e plastica. Non è da sottovalutare inoltre la creazione da parte dello stesso artista delle cornici dei propri dipinti, anche in questo caso una coabitazione concettuale fra la planarità del quadro e la tridimensionalità della cornice.
Nella grande stanza ovale della galleria questo ritmo, fra matericità pittorica e purezza delle superfici dell’oggetto scultoreo, incalza progressivamente. Così a partire dalla tessitura in grisaille creata da dipinti come Industrial Complex (1967), o nell’opera al limite dell’astratto, Tree Going Away II (1985) – dove l’acrilico incontra la ruvidità del celotex facendo emergere il disegno di una linea prospettica –, si giunge al termine del percorso espositivo con due oggetti scultorei. Si tratta di Untitled (1965) posto in alto in diretto dialogo con Corner (1967), posizionato invece su un piedistallo. Nuovamente, le diverse superficie aggettanti diventano esse stesse elementi pittorici poste però all’interno di uno spazio con il quale, a causa la loro tridimensionalità, devono dialogare.
Le opere di Artschwager ci conducono dunque in un percorso di ricerca dove la scultura è elemento soprattutto da vedere e la pittura diviene oggetto visibilmente tattile. Considerato che, scrive l’artista: “In linea generale un’immagine è un oggetto che genera l’immagine. È possibile “avere” l’immagine, non è possibile entrarci dentro. Ma il fatto di poterla toccare le conferisce credibilità”2.