Dopo le orge dei mesi scorsi, il successo mediatico di Second Life (d’ora in poi, SL), il mondo virtuale lanciato nel 2003 dall’azienda californiana Linden Lab, comincia oggi a rivelare le prime crepe. E se da un lato ha avuto il merito di rendere popolari concetti come “avatar”, “mondi virtuali” e “network sociali”, dall’altro — con il suo acritico entusiasmo e la sua superficialità — ha creato false aspettative che rischiano di produrre una condanna altrettanto acritica e pregiudiziale di un contesto senz’altro problematico, ma ricco di potenzialità. Questo risentimento è condiviso da artisti e attivisti, che nei dibattiti on line ripetono spesso le critiche più comuni rivolte a SL, secondo cui il mondo virtuale più chiacchierato e visitato sarebbe in realtà deserto e le possibilità di arricchimento fasulle. Per molti SL è un mondo superficiale, edonista, trendy, alienante, chiuso in se stesso, estraneo alla vita, votato al profitto e ai piaceri della carne, consumista, persino inquinante (è stato stimato che un avatar consuma tanta energia quanto un cittadino brasiliano medio); vive della creatività non retribuita dei suoi utenti ed è spesso frustrante sia per i limiti della sua tecnologia che per quelli della società cui ha dato vita; è noioso, e dietro un’apparenza di libertà pone alla sperimentazione dei limiti invalicabili: “quando consenti a un ingegnere di decidere come espletare la tua creatività e quale forma deve prendere hai rinunciato alla tua libertà artistica. È il caso di SL”, ha dichiarato ad esempio l’artista americano G. H. Hovagimyan. Eppure, a fronte di tutto ciò, SL pullula di artisti. Nessun altro mondo virtuale può vantare una comunità artistica variegata, complessa e ricca come quella di SL. In SL artisti e critici si incontrano, tengono conferenze e dibattiti; le gallerie sorgono come funghi, vendono arte agli avatar per le loro case (virtuali o reali che siano); e alcuni cominciano a pensare alla possibilità di un’arte tutta interna al mondo virtuale.
un’arte “nativa”
SL si descrive come un “mondo digitale 3D on line immaginato, creato e posseduto dai suoi residenti”. In altre parole, il design è, in SL, l’attività di gran lunga prevalente, e la cosiddetta “creatività” la risorsa più valutata (si è parlato, a questo proposito, di “capitalismo creazionista”). Va da sé che, in un mondo di “creativi”, la parola arte viene spesso usata a sproposito: e questa è la prima avvertenza che diamo al turista dell’arte che decida di avventurarsi nelle gallerie del Metaverso. La seconda è che SL — come Internet — è spesso usata come una vetrina da parte di artisti in cerca di un successo di cui il sistema dell’arte sembra avaro. La terza è che in un mondo che si propone come il “doppio” virtuale di quello reale, l’arte si replica in tutte le sue articolazioni possibili, con la differenza che questi livelli, ben separati nella vita reale, si mescolano in quella virtuale. Insomma, in SL c’è tutto e il contrario di tutto (più Rabarama che Hirst, a dire il vero); e tutto appare mescolato e confuso. In questo contesto, la riflessione sulla possibilità di un’arte “autoctona” ha preso due strade. La prima è, evidentemente, quella della modellazione 3D, della creazione di sculture e di ambienti, della programmazione di spazi più o meno statici, più o meno multimediali e interattivi. La seconda è quella del gioco identitario e della performance, che parte dalla progettazione dell’avatar e arriva all’organizzazione di veri e propri eventi. La prima vede in SL la tecnologia, la seconda si confronta con il contesto sociale. Questi due filoni si incrociano già nella figura mitica di Starax Statosky, il padre fondatore dell’arte in SL. Prima di ritirarsi da SL in polemica con un aggiornamento del software che ha reso obsoleta una sua opera, Statosky ha dato vita a una serie di sculture monumentali in 3D di ispirazione neoclassica. Ma il vero capolavoro di Statosky è stata la creazione del suo personaggio, l’oculata gestione del mito prometeico dell’artista che dà vita a una nuova arte ispirandosi alla scultura classica.
Dall’opera scultorea di Statosky, ma anche dal confronto con la sperimentazione architettonica e con il design degli oggetti, discende il filone della scultura e dell’installazione multimediale, di certo il più coltivato e celebrato dell’arte in SL. Tuttavia, questa ricerca — che comprende alcune efficacissime esplorazioni del senso dello spazio, del tempo e dell’identità in un mondo virtuale, e delle potenzialità acustiche ed estetiche di SL, come le opere di AngryBeth Shortbread, DanCoyote Antonelli, Juria Yoshikawa e Adam Ramona — soffre di un limite evidente, messo in luce dalla già citata critica di Hovagimyan: quello di non essere altro che l’inveramento delle potenzialità offerte da un buon motore grafico, incapace di andare al di là dei limiti posti dai tecnici che l’hanno costruito. Pensando a Internet, potremmo paragonare molti di questi lavori a dell’ottimo web design sperimentale.
Questo paragone non è casuale. Curiosamente, in SL sembra riproporsi una situazione che aveva già caratterizzato gli albori della Net Art. L’entusiasmo acritico per il mezzo può produrre, al massimo, dell’ottimo artigianato; ma l’arte si trova altrove, e precisamente in quegli artisti che indagano gli aspetti culturali, più che quelli tecnici ed estetici, del software (che in questo caso è anche il mondo in cui vivono). Spesso costoro scelgono proprio l’approccio critico al mezzo non per sfuggirne, ma per sviluppare progetti che ne mettano in discussione i limiti tecnici, culturali e ideologici. Scrive l’artista Man Michinaga: “Sono stanco di pensare di dover passare sempre al nuovo mezzo, e sto cercando di concentrarmi più sul contenuto critico che sulla tecnologia. In SL ho visto una nuova comunità, piena di stimoli… Ciò che voglio è fare qualcosa che sia REALE in SL”. Man Michinaga è Patrick Lichty, artista, curatore e critico dei media statunitense. In SL è uno dei membri fondatori di Second Front, un collettivo di performer che sta riproponendo in world la logica degli eventi Fluxus, attraverso performance spesso non annunciate, realizzate in spazi pubblici, basate su canovacci aperti che prevedono un forte coinvolgimento del pubblico. Una delle più memorabili è stata Second Supper (2007), un re-enactment dell’Ultima Cena che indaga il culto del capolavoro che imperversa in SL, piena di riproduzioni di dipinti e sculture celebri: i membri del collettivo rimettono in scena l’Ultima Cena di Leonardo per poi profanarlo in una improbabile deriva punk.
Il re-enactment è una delle possibilità più praticate e interessanti dell’arte in SL. L’esempio più celebre sono probabilmente le performance di Eva e Franco Mattes (aka 0100101110101101.ORG), che rimettono in scena lavori storici degli anni Sessanta e Settanta. I Mattes scelgono volutamente performance che risultano paradossali in un mondo virtuale, a causa della strana piega che concetti come il corpo, lo spazio, la violenza, l’ambiente prendono in un universo fatto di poligoni. In questo modo, i loro re-enactment sono al contempo una messa in discussione radicale della Performance Art e del concetto stesso di “seconda vita”. Ad esempio, in Joseph Beuys’ 7000 Oaks (2007) l’operazione ecologica di Beuys diventa un “virus concettuale” che invade un mondo a elevato consumo energetico, e quindi ad alta capacità inquinante.
Un’altra artista che lavora molto sulla rimediazione è Gazira Babeli, una performer italiana che da più di un anno sviluppa in SL un lavoro radicale e irriverente, il che — unito al fascino del suo personaggio e al mistero che avvolge la sua identità reale — ha contribuito a far sorgere attorno a essa un vero e proprio culto. Gazira Babeli è un progetto totale, la costruzione di un’identità narrativa tanto più reale quanto più riesce a svincolarsi da un autore. Tutto ciò che Gazira fa — dalle performance alle installazioni raccolte nella sua prima retrospettiva al cult-movie “Gaz’ of the Desert” (2007) — contribuisce, prima di tutto, a dare vita al suo personaggio, il quale, esistendo solo in quella che potremmo definire una “discarica dell’immaginario”, vive di cultura, come dimostrano le sue isteriche lattine di Campbell’s Soup, le sue grandinate di icone pop, i suoi rifacimenti live dei capolavori di Bacon, che mettono ironicamente l’avatar dello spettatore al centro del quadro. Portando alle estreme conseguenze questo approccio, Patrick Lichty ha dato vita al progetto “(re)constructing Cicciolina” (2007), “una ‘rimediazione’ dell’artista come oggetto”. Qui a essere riproposta è un’icona della postmodernità, che impone immediatamente il confronto con una cultura (quella della manipolazione dei media) e un’estetica (il culto di una bellezza sintetica ed eccessiva) che hanno condizionato fortemente la storia di SL. Mentre Scott Kildall sembra riflettere piuttosto sul senso di “familiarità fuori luogo” che producono le sue reinterpretazioni di opere celebri (performance, ma anche video e sculture che i media hanno tradotto in icone) nel mondo (così lontano, così vicino) del Metaverso.
uscire da sl
La scena fin qui descritta non potrebbe esistere senza un contesto che la alimenti e la supporti, fornendole un luogo e delle occasioni per dispiegarsi. Fra i centri che supportano l’arte “nativa”, i più importanti sono senz’altro Ars Virtua, Odyssey e NMC Campus. Odyssey in particolare risulta interessante per la ricchezza e la varietà della comunità artistica che si è raccolta su quest’isola, nata come investimento in immagine di un’azienda di web publishing.
Ma se lo sviluppo di un’arte autoctona risulta il fatto artistico più importante di SL, resta ancora da rispondere a una domanda decisiva: quali possibilità ha quest’arte di mantenere un senso al di fuori della “nicchia” in cui nasce e del contesto con cui si confronta? Che tipo di contributo dà all’arte contemporanea? È evidente che, quale che sia il futuro di SL, la problematica della “vita sullo schermo”, che ci ha accompagnato in sordina per tutti gli anni Novanta e che è esplosa con i mondi virtuali, continuerà per lungo tempo a essere uno dei temi chiave del quotidiano. E quand’anche ciò non avvenisse, è sicuramente uno dei temi chiave del presente. L’hanno dimostrato i Mattes con i loro avatar; e l’ha dimostrato l’artista cinese Cao Fei proponendo all’ultima Biennale di Venezia i.Mirror, un ampio documentario in tre parti che racconta lo spazio, le persone e le storie che si intrecciano ogni giorno nei mondi virtuali.
Quanto all’arte nativa, è abbastanza sintomatica la posizione di Second Front, che sostiene che le performance in world non esauriscono la sua pratica operativa, ma sono solo il punto di partenza di una concezione estesa di performance, che li vede operare sui media di comunicazione (Internet in particolare) e nello spazio reale attraverso la riproposizione di video e stampe digitali. Stesso discorso per Gazira Babeli, che esce da SL con il film e i video d’artista. Un’altra possibilità è quella studiata dalla comunità di The Port, che con il progetto “Objects of Virtual Desire” trasforma in sculture alcuni oggetti virtuali a cui gli avatar di SL attribuiscono un grande valore sentimentale, nell’intento di esplorare “la produzione immateriale in un mondo virtuale”; mentre il tedesco Aram Bartholl ripropone nella realtà — in forma di installazioni e sculture — convenzioni o oggetti tipici dei mondi virtuali, per sondarne la carica surreale in barba alla presunta identità tra prima e seconda vita.
Resta solo da verificare se queste avvisaglie preludono, come sembra, a una presenza sempre più consistente dell’indagine della “vita virtuale” nell’arte contemporanea.