Laura Cherubini: Carissimo Roberto, ho ricevuto l’immagine del nostro piccolo demone, è bellissima. Come mai hai deciso di far uscire da una bacheca del Louvre una piccola statua (“grande come una sorpresina delle patatine” l’hai definita) di tremila anni fa per ingigantirla e portarla a Rivoli?
Roberto Cuoghi: Per avere un’immagine all’appuntamento che ho da due anni con il Castello di Rivoli. A settembre il museo ha ottenuto il permesso dal Louvre, ma è stato solo l’inizio. Marcella Beccaria, che mi aveva invitato per la mostra personale, ha dibattuto per cinque mesi con gli uffici del museo per l’arte contemporanea, il Dipartimento d’Arte Orientale e il Centro di Ricerca e Restauro dei Musei di Francia, e a febbraio abbiamo avuto una data e un laboratorio dove è avvenuto un rilievo scansiometrico del piccolo bronzo. È un demone della Mesopotamia precristiana. Acquisito con una tecnica laser di scansione tridimensionale dal gruppo Giugiaro-Design, il modello digitale del demone è arrivato a Torino. Negli stabilimenti Italdesign-Giugiaro è iniziata, in scala gigante, la modellazione su resina epossidica per riproporzionare il demone di Babilonia da innalzare sul terrazzo di fronte all’ingresso del Castello. La mostra è semplicemente divisa in due, dentro e fuori, e questa è l’unica cosa semplice. Nelle sale del Castello non c’è niente da vedere, si domanda e si prega secondo la forma linguistica della liturgia, ma fuori si comanda e si ordina perché l’oggetto è magico, è una “statua abitata”, un’anima evocata e attratta o costretta nella statua. Tu conosci la tradizione ermetica e lo diresti un talismano, infatti è così. Non ho fatto un monumento al diavolo, è come una protezione a misura di castello, il suo nome è Pazuzu, figlio di Hanpa, signore dei maligni spiriti del vento che ammala. Ha la testa di un molosso con corna di antilope, quattro ali a governare i venti, la coda di uno scorpione e le zampe di un grosso rapace, e un serpente è il suo organo genitale. Così abbiamo intrecciato l’idolo pagano al grande marchio del design industriale; non posso smettere di pensarci, è un Goodgriefer, molto più di Brandon-mosca.
LC: All’interno delle sale è previsto un intervento sonoro basato su uno strumento della tipologia della lira, anche se con una cordatura greca (che, come mi hai detto, Pitagora aveva preso dai Babilonesi).
RC: Ho immaginato una lamentazione corale per la caduta di Ninive (609 a.C.), prima dell’epilogo ad Harran. Una lamentazione generata dai tre anni peggiori del primo impero alla conquista del mondo. Gli assiri erano massacratori. Gli studi televisivi si sono liberati di un pesante tavolo da lavoro che abbiamo attrezzato come laboratorio di falegnameria filosofica. Ho costruito decine di sistri, su modello egizio e semitico, e altre cose che non saprei come chiamare; poi ho convinto Alessandra che eravamo pronti a ricostruire la grande lira del Pozzo della Morte di Ur e lei mi ha convinto a parlarne con un liutaio. L’originale ha quasi cinquemila anni. Era esposta al museo di Baghdad, ma è stata distrutta durante il conflitto, qualche anno fa. Il liutaio ha accettato l’incarico. Gli abbiamo fornito del materiale video di grandi begene etiopi; io ho ricavato le dimensioni con qualche equazione e ho fatto un disegno. Dario Pontiggia è uno dei pochi specialisti di arpe barocche e il mio progetto gli è sembrata una cyclette. Ci ha chiesto di trovare le immagini radiografiche e i dettagli di tutti i lavori di restauro su altre lire dello stesso periodo. Abbiamo procurato il legno di cedro e le corde in budello di pecora, e il risultato è che la grande lira risuona e vibra come il muggito di un bue, che è esattamente il suono che deve fare. Il resto è stato più semplice, i corni d’ariete sono su e-bay e il suono del grande tamburo sacro è ricavato da un tom tom orientale da parata, una racchetta da badminton, una cassa di vetri rotti e una frusta per elefanti.
LC: So che stai cercando di ricostruire il testo di un salmo. Non sappiamo nulla della musica assira, di cui troviamo indiretti indizi nei bassorilievi. È importante che ci sia la filologia alla base di questa tua operazione tanto audace, radicale e affascinante quanto apparentemente assurda? C’è del metodo in questa follia, direbbe Shakespeare.
RC: Li chiamo accessi filologici, però quest’opera non è una ricostruzione, è una congettura. Ci sono testi su piccole tavole d’argilla, non ci sono altri riferimenti diretti ma ne esistono moltissimi solo probabili. C’è sempre stata invece una forma di registrazione attendibile, il rigore liturgico, il timore di offendere la tradizione, cioè l’antica idea religiosa, originale. Il punto di partenza è che le avversità spingono ai doveri del culto, è un’idea che mi illudo di descrivere che per me è il sentimento evolutivamente più avanzato, l’ingiustizia. In questo caso però non posso appoggiarmi a una melodia precisa, perché non c’è traccia di una melodia, c’è traccia di una sensibilità per la melodia, che però non corrisponde neppure all’idea che abbiamo di gradevolezza. Ho ascoltato cantilene funebri giudaiche e vecchie incisioni beduine per mesi; servono solo due settimane per cambiare gusti musicali. Anche la pronuncia dei testi è un’ipotesi, deriva dall’arabo e dall’ebraico antico. Mi ha aiutato il professor Stefano Seminara da Roma, diverse volte e sempre al telefono. Ho già fatto una canzone zulù e una in Mandarino, non ho imparato niente e questo per me è un risultato. Insisto solo perché so di non saperlo fare, cioè qualsiasi cosa sia non è roba per musicisti.
LC: Di quanto è ingigantito il piccolo demone del Louvre?
RC: È un Pazuzu da piazza con le proporzioni di Vittorio Emanuele a cavallo, ha un’apertura alare di tre metri e sfiora i sei metri d’altezza. Poteva essere ancora più maleducato: l’idea era di orientare una statua di quattordici metri sul grande terrazzo rivolto a Torino. Pazuzu sarebbe stato visto già da Corso Francia, ma ci sarebbero stati troppi problemi strutturali e un preventivo ci ha fatto cambiare idea. Ora la sua collocazione è più corretta. Questi oggetti non avevano valore artistico, erano strumenti magici domestici da appendere fuori dalle porte o sulle culle dei neonati. Per questo la statua ha un grosso anello sulla testa, è fuori scala, ma è solo un piccolo occhiello, non fa parte della creatura, è come un portachiavi.
LC: In effetti appena mi hai parlato di Pazuzu ho pensato a un talismano con funzione apotropaica. Dobbiamo difenderci da lui o abbiamo bisogno della sua protezione? E chi è sotto la sua copertura? Tu, tutti noi, il Castello di Rivoli, il mondo dell’arte?
RC: Se pensassi che c’è una minaccia o che c’è una soluzione dietro a quella statua sarei solo superstizioso. Invece c’è un’attitudine che sembra avere scavalcato ogni proposito della Storia. È un filo rosso che parte dai canoni dei popoli del deserto e arriva agli organigrammi delle multinazionali. Così Pazuzu sembra il Signore delle Tenebre senza che ci sia una ragione. Quella statua in particolare è più vicina al nostro Medioevo che all’iconografia babilonese, e questo non è proprio logico. Dopo gli antichi popoli ci sono stati secoli di iconoclastia, le città della Mesopotamia sono implose e i primi scavi utili sono della metà del XIX secolo. Dopo i persiani la civiltà classica non ha niente di simile, ci sono le chimere o Pan, ma non ci sono i gargoyle. La spiegazione a Pazuzu è che non si tratta di alto artigianato e che la fantasia ha un limite, e si ripete anche senza sapere di ripetersi. Anche i valori religiosi sono limitati, ma Pazuzu è libero dagli imbarazzi della devozione perché è molto più di un’immagine sacrale. Lui è immanente nella sua immagine, che è il contrario di trascendente; cioè Pazuzu è quella statua.
LC: Il talismano è un congegno che immagine, forma e materiali contribuiscono a rendere efficace. Il principio della magia è che il potere dell’immagine esiste perché essa contiene realmente qualcosa dell’idea o della forza che incarna. Il gesto della mano levata, come tu hai notato, può possedere un doppio statuto, di minaccia, per scacciare qualcuno, “vade retro”, ma anche di preghiera.
RC: La mia lamentazione non prende nome dall’incipit come dovrebbe. L’ho chiamata Suillakku, la parola accadica che indica la procedura rituale che hai ricordato, la posizione di preghiera con l’avambraccio rivolto verso l’alto e la mano alzata, come uno stop. Era il gesto esorcistico di purificazione o di scongiuro alla cattiva sorte, agli dei della notte e alla stella del mattino, oppure a Nergal, il dio delle sciagure. Aver dilatato il titolo alla mostra, a Pazuzu, è un’altra congettura. Per la letteratura la posizione di Pazuzu è solo “grintosa” e non c’è altro a riguardo. Abbiamo chiesto a Nils Hessel dell’Università di Heidelberg, che frequenta questi problemi con più prudenza e non può che confermare la posizione grintosa. Rimane una nostra idea, che la posizione del demone non sembra così spontaneamente grintosa, ma sembra la rappresentazione di quel gesto preciso, un gesto magico e un modo di pregare. Ho già fatto un paio di volte un diavolo nero in posa devozionale, dev’essere un desiderio che torna nei momenti di chiusa tristezza, ma Alessandra è con me, per noi non c’è nulla di strano e un diavolo può anche pregare.
LC: Ricordo che, quando ne abbiamo parlato la prima volta, hai detto una cosa che trovo acutissima: di fronte a questi gesti primari, come appaiono deboli e derivativi i gesti della liturgia cattolica! È per l’intrinseca e originaria forza che hai scelto questa diversa liturgia?
RC: Assolutamente. Non faccio sacrifici al dio Marte, ma ho ritrovato un articolo di Giorgio Manganelli e si sono liberati tanti dubbi sulla dottrina che mi è sempre sembrata sbiadita. Il primo soccorso è il testo CEI. Mi sono serviti i libri profetici, gli Oracoli contro le Nazioni, soprattutto il presagio di Naum che, dal tempio di Sion, parla di Ninive come un covo di leoni e un popolo di locuste. Poi, in ogni sua versione, il Pentateuco ci ha travolti e tutto si è appiccicato al resto di tutto e non c’è stato più nient’altro di urgente da fare. Le lingue più antiche sono vicine al significato autentico di ogni cosa e le parole avevano un valore concreto, chiedevano molta attenzione perché una parola sbagliata era un’infrazione che provocava qualcosa di sgradevole, una punizione o la catastrofe. Conoscere i nomi delle divinità era un potere fisico a disposizione, l’arma più pericolosa. Pronunciare i nomi delle forze significava poterle evocare e poterle usare, e la ripetizione era proporzionale alla volontà di determinare qualcosa. Questi popoli non erano fatalisti, la rappresentazione di uno spirito era l’intenzione precisa di chiamarlo in causa e una formula rendeva il suo potere operativo. Dietro le ali di Pazuzu c’è un’iscrizione sumerica che lo definisce, lo governa, queste sono le basi alla Dottrina dei Nomi. “Non nominare il nome di Dio” è esattamente questa questione. Così abbiamo imparato a distinguere tremila anni fa da quattromila anni fa e da cinquemila anni fa, passando molto tempo a tornare indietro, provando ad avvicinare le cause, che poi sono intuitive perché gli effetti li conosciamo per forza, anche senza saperli spiegare.
LC: In effetti il problema del nome è fondamentale. In tutte le culture ermetiche ed esoteriche le parole hanno potere di evocazione. Nella Cabala addirittura un gruppo di lettere in un certo ordine può convocare una presenza, le stesse lettere pronunciate al contrario possono farla scomparire. A questo proposito sarebbe interessante capire quale scritta appare sulle ali di Pazuzu.
RC: “Io sono Pazuzu, figlio di Hanpa, Re dei malvagi demoni Lilu — Io solo scalai l’imponente montagna che tremò e ai venti diretti a Occidente, sotto cui mi accompagnavo, una ad una spezzai loro le ali”. È un documento d’identità con la referenza. Lilu sono i maligni spiriti del vento gelido e brinoso e la loro origine, rispetto al popolo di Ninive, deve essere il Nord-Est, gli Zagros, perché trovi scritto che questi venti “scendono con violenza dalle montagne provocando il disordine”. La Lilitu è come la luna nera, è uno spirito subordinato a Pazuzu, è la vergine infeconda che strangola i bambini, la Lilith del Talmud, che è la prima sposa dell’uomo. Anche la Lamashtu vive nelle montagne, si apposta nelle paludi e procura ai neonati la febbre tifoidea. Non è una Lilu, ma le viene sempre opposto Pazuzu. Se il procedimento è rispettato, l’esito di una cerimonia è l’intervento di Pazuzu che porta la Lamashtu alla terra del non ritorno, all’inferno a mangiare l’argilla. In questo caso Pazuzu è una forma di profilassi oppure una prescrizione terapeutica. Gli oggetti come questo forse erano preparati da chi avvertiva il pericolo, con il procedimento della cera persa; il compito passava al signore del fuoco, il metallurgo, che era un mago perché con la fusione creava qualcosa che prima non c’era, una figura in lega che non veniva dalla natura.
LC: Rispetto all’opera con gli strumenti, che parte ha la musica nel tuo lavoro? Mi sembra di ricordare il tema musicale in altre tue opere.
RC: Non la distinguo dal mio lavoro, e ogni volta che la musica ha senso per me è una forma di reclamo. Mei Gui, la mia canzone cinese, è sulle rose che sbocciano in primavera, ma la sua storia è la storia di aspettative civili impedite dal programma politico della Repubblica Popolare. Le idee dividono e le religioni dividono meglio del petrolio, perché partono da presupposti diversi, oppure perché il presupposto comune è una negazione, non avere altro Dio. Una lamentazione mi è sembrata la forma arcaica della canzone di protesta, così come il patto dell’alleanza è un contratto di protezione militare. In questo senso c’è un aspetto del misticismo che non può dividere per definizione e deriva dalla sensazione di avere un destino comune, di dover condividere la paura. Si direbbe “mistero”, ma in fondo è paura e paranoia, perché se gli dei si allontanano dagli uomini, allora certi spiriti si avvicinano. Quello che ho fatto è un canto liturgico di lutto e di afflizione, sono voci sconsolate di un popolo che si sente abbandonato e ha bisogno di riunirsi a soffrire.