Con “Eclipse” la Fondazione Galleria Civica di Trento, in collaborazione con Villa Arson-Centre National d’Art Contemporain di Nizza e Salzburger Kunstverein di Salisburgo, ospita la prima mostra di Roman Ondák (Zilina, Slovacchia, 1966) in un’istituzione pubblica italiana. Negli spazi della galleria l’artista dissemina tracce e oggetti che inducono lo spettatore ad assumere un punto di vista non consueto: interventi, installazioni — talvolta non immediatamente percettibili — e un video che trasformano le sale in una dimensione pronta ad accogliere la tensione di continui rovesciamenti tra opposti, di apparenti incongruenze, di dislocazioni fisiche di oggetti che per poter assumere significato necessitano di quei percorsi mentali alternativi che l’artista innesca nell’osservatore. Non si tratta di ludico spiazzamento fine a se stesso, Ondák scardina il punto di vista consueto per aprire vie possibili, che egli vuole personali per ogni spettatore: l’artista, infatti, non impone interpretazioni o verità, non intrappola il fruitore in punti di vista diversi ma comunque indotti, lo conduce, invece, a una maggiore indipendenza di pensiero. Ondák lo fa anche attraverso opere come Cuttings (1995) che pur nella loro autonomia, sono collocate quasi a commento di altri lavori, favorendo l’avvicinamento del fruitore a questo tipo di processo.
Ondák agisce in questo senso anche nel contrapposto utilizzo degli spazi della galleria: se al piano terra il visitatore scruta angoli e pareti alla ricerca dei lavori, al piano interrato è l’opera a travolgere lo spettatore per le sue dimensioni. Qui si trova Eclipse — che dà il titolo alla mostra —, un tetto delle dimensioni dell’intera sala, ma posizionato al contrario, con le capriate che sembrano sospese poco prima dell’impatto con il pavimento. Si tratta di un’opera viscerale, che sembra avere origine dalla parte più interna dello spazio espositivo, di cui ingloba alcuni elementi, come i pannelli del controsoffitto. Con questa operazione l’artista marca fortemente anche il rapporto con il territorio, impiegando travi in larice provenienti dai boschi del Trentino e utilizzati in campo edile. In quest’opera si condensano riflessioni sull’architettura e sulle istituzione, sul luogo deputato all’arte e sul suo rapporto con lo spazio della vita quotidiana. Tali aspetti uniscono, con i dovuti distinguo, quest’installazione a lavori come Loop alla 53esima Biennale di Venezia o Measuring the Universe presentato in istituzioni quali la Tate Modern di Londra e il MoMA di New York, in una continuità sorprendentemente capace di aprire a considerazioni sia relative all’approccio del singolo nei confronti del reale e dell’arte, sia a una riflessione sull’arte in sé, sul suo status e sul suo valore.