Ludovico Pratesi: Lei è considerato uno dei pochi artisti contemporanei a essere rimasto fedele alla pittura, intesa come una disciplina quotidiana. Quali sono le ragioni che hanno motivato questa scelta?
Roman Opalka: Ho cominciato a dipingere il tempo perché credo che dopo l’Impressionismo la pittura figurativa sia finita. Monet, Manet e gli altri pittori impressionisti hanno realizzato grandi capolavori, ma oggi le nuove tecnologie rispondono meglio dei quadri alla necessità di documentare l’immagine. Sono arrivato alla conclusione che la pittura figurativa non ha più senso. Ho celebrato la fine della pittura con la pittura stessa, per dipingere in tutta la mia vita un unico quadro. Ogni dipinto che faccio è un dettaglio di questa unica tela, un frammento dell’intero, e porta con sé un frammento di un tutto.
LP: Quanto ha influito la sua storia personale in questo senso?
RO: Sono nato nel 1931 in Francia ma a quattro anni i miei genitori mi hanno portato in Polonia, da cui nel 1939 tutta la mia famiglia è stata deportata in Germania e dove siamo tornati nel 1946. Sono cresciuto e mi sono formato come artista in questo paese, dove non esisteva ancora il mercato dell’arte. Così, a differenza di altri artisti concettuali che per convertirsi al capitalismo si sono messi a dipingere, come Daniel Buren o Niele Toroni, io avevo la possibilità di essere libero dal mercato senza dover fare concessioni o compromessi.
LP: Come si viveva in Polonia in quel periodo?
RO: Dal 1956 la Polonia era il paese più libero del blocco sovietico, anche per l’antica inimicizia tra russi e polacchi. Nel 1920, infatti, i russi hanno attaccato la Polonia per conquistare l’Europa e arrivare fino in Spagna, ma i polacchi li hanno fermati: il generale Pilsudski ha fatto prigionieri 100.000 russi a Varsavia, e poi li ha rispediti indietro perché non poteva nutrirli.
LP: Che rapporto ha con le sue origini?
RO: Molto profonde. Parlo francese ma conto in polacco, perché da Pascal in poi i francesi non contano più bene. Si conta sempre nella lingua materna.
LP: Quando ha cominciato a dipingere il tempo?
RO: Ricordo esattamente quando e perché. In una mattina di primavera del 1965, ero al caffè dell’Hotel Bristol di Varsavia e aspettavo la mia prima moglie Halszka, che era in ritardo. Così ho pensato di fare un bilancio della mia vita fino a quel momento. A 34 anni avevo già una discreta fama come incisore in Polonia, ma negli ultimi dieci anni avevo deciso di dare un nuovo corso alla mia pittura.
LP: Dopo questo episodio ha deciso di iniziare un nuovo percorso?
RO: Allora ho cominciato la nuova fase della mia ricerca, con un quadro con i numeri del tempo dipinti sul fondo nero. Non ho cominciato con lo zero, che per me si trova all’esterno della tela, ma con l’uno, che è l’elemento base di un tutto. È l’inizio, in grado di creare un rapporto concettuale con l’infinito. Da lì è partita quest’avventura, che mi ha portato fino a oggi a realizzare 233 dipinti e a superare la cifra 5.500.000.
LP: Qual era la motivazione che lo ha spinto verso una scelta così assoluta?
RO: Da molto tempo desideravo avviare un’opera che fosse la più rigorosa possibile, ma solo nel 1965 sono riuscito a strutturare i miei pensieri e a concepire un progetto che rispondesse a questa necessità di rigore. Da allora credo di poter affermare che lavoro in totale serenità, legata alla certezza della mia ricerca. Il progetto è intitolato “Opalka 1965/ 1- ∞”. Nel 1970 ho smesso di fare incisioni, e nel 1972, dopo aver dipinto il primo milione, ho preso la decisione di schiarire progressivamente dell’1% il nero del fondo, per arrivare al grigio e poi al bianco totale, che dovrei raggiungere con il numero 7777777. In quell’anno — era il 1972 — ho deciso di abbinare a ogni “Détail” un autoritratto fotografico in bianco e nero, come testimonianza dello scorrere del tempo sul mio volto.
LP: Da dove è scaturita l’idea di utilizzare il numero come unità di misura del tempo?
RO: Alla fine degli anni Cinquanta parte del mondo dell’arte sembrava ammantata di una sorta di “spirito del tempo”. Nel 1957, prima del mio primo viaggio a Parigi, per alcune settimane ho utilizzato delle cifre nel mio lavoro, come potevano fare negli Stati Uniti artisti come Jasper Johns o Robert Rauschenberg. Avevo già pensato di realizzare un’immagine legata alla stretta materialità delle cifre, concentrandomi sul solo valore dei segni numerici: un’idea che aveva dato vita ai primi “Chronomes”, tele composte da migliaia di punti di colore bianco che anticipavano i “Détails”, ma erano legati alla rappresentazione del tempo reversibile, come una clessidra: un’atomizzazione ripetitiva del tempo. Il “Détail”, che ho concepito e realizzato a partire dal 1965, è stata un’immagine logica del tempo irreversibile.
LP: Ricorda il momento preciso della nascita del primo “Détail”?
RO: Ero in piedi, davanti a una tela che avevo ricoperto di nero. Tenevo con la mano sinistra un bicchiere di vernice bianca, pronto a ricevere il pennello tenuto tra le dita della mano destra, con il gesto ancora sospeso a mezz’aria, ma lo spirito completamente coinvolto dalle motivazioni della mia decisione. Fremente di tensione davanti alla follia di una tale impresa, intingevo il pennello nel bicchiere e alzando dolcemente il braccio, con la mano tremante, posavo il primo segno “1” in alto a sinistra, al bordo estremo della tela, per evitare di lasciare uno spazio che non partecipasse a quella struttura logica di lavoro.
LP: Quali furono le reazioni del pubblico davanti al suo primo “Détail”, oggi conservato al museo Sztuki di Łódź, in Polonia?
RO: Nel momento in cui ho deciso di dipingere il mio primo “Détail” mi sono impegnato coscientemente per tutta la vita in un’unica e sola direzione, e pertanto posso affermare che sono l’artista che logicamente fa, con ogni numero, qualcosa di realmente diverso. Quando ho iniziato il progetto, la gente pensava che fossi impazzito. Non si dice che un pazzo dà i numeri? Ricordo che il ministro della Cultura polacco di allora aveva deciso di offrire una borsa di studio di un anno a chi mi convinceva a interrompere il progetto, del quale poi è diventato un grande sostenitore.
LP: Veniamo ai “Détail”, che hanno tutti la stessa misura. Come mai?
RO: La misura di ogni “Détail” è sempre la stessa, 196 x 135 cm, e ha un rapporto antropometrico con il disegno di Leonardo da Vinci che raffigura un uomo con le braccia aperte, e con la porta del mio primo studio, a Varsavia. Ognuno è dipinto con un unico pennello tipo “zero”, sul quale riporto le cifre dell’inizio e della fine presenti sulla tela. Ogni pennello registra così la traccia di 20.000 numeri, che si scompongono in una media di 140.000 cifre. I pennelli sono gli strumenti che provano l’obiettività della mia ricerca.
LP: Per una pittura così rigorosa credo che occorra mantenere lo stesso metodo di lavoro. È corretto?
RO: È così. Dipingo sempre con il quadro collocato su un particolare cavalletto, che ho disegnato personalmente, al centro del mio studio in Francia. Ai miei piedi c’è il registratore a bobine che dal 1972 serve a registrare la mia voce, mentre pronuncia in polacco ogni cifra nel momento esatto in cui la dipingo sulla tela, in modo da avere una traccia sonora delle cifre, che mi sarà utile quando dipingerò bianco su bianco. Se per caso mi sbaglio, non cancello il numero sbagliato ma riprendo la progressione numerica a partire dal numero giusto lasciando la parte inesatta. Nella mia pittura niente si ripete mai — se non le cifre che compongono i numeri — e dal momento che uso un unico processo di numerazione la sua natura addizionale cambia continuamente l’aspetto della mia opera.
LP: Come sceglie la dimensione di ogni cifra?
RO: Fin dal primo “Détail” le dimensioni dei numeri sono sempre le stesse, devono essere viste da vicino ma non lette da lontano. La mia pittura è un memento mori costante, il finito definito dal non finito. Devo sempre pensare alla mia morte, la morte è la percezione del finito. Siamo tutti maestri della nostra esistenza, perché ogni esistenza è unica e insostituibile.
LP: Quali artisti ammira?
RO: Ammiro Yves Klein. Lui è il pieno e io il vuoto. Era un meteorite, non poteva continuare a dipingere. Oggi Robert Ryman fa installazioni con il carbone, e non dipinge più. La pittura è un credo, non si può interrompere. Un altro artista che mi piace è Giorgio Morandi, anche se non tutte le sue opere sono riuscite. Un dipinto di Morandi visto da solo è un capolavoro, ma spesso accostato ad altri perde la sua tensione.
LP: Qual è il suo rapporto con i grandi maestri del passato?
RO: La mia pittura riprende l’idea dello sfumato di Leonardo, che aveva una precisa relazione con il non finito. La Gioconda è un quadro non finito. Io dipingo lo sfumato di una vita. La mia pittura è nel mondo perché è il mondo. È la propaganda di una ricerca, la propaganda di un’idea.
LP: E la relazione con Carpaccio?
RO: Le Dame Veneziane di Carpaccio è uno dei pochi quadri che rappresenta l’attesa, il tempo dell’attesa. Il rapporto con i miei “Détail” è basato su due diverse maniere di rappresentare il tempo irreversibile della pittura.