Tutto inizia tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando una serie di artisti individuano nel quartiere della Roma proletaria di San Lorenzo un edificio di archeologia industriale, sede dell’ex Pastificio Cerere, un luogo carico di un’aura alternativa, che da quel momento, con una vera e propria operazione di rigenerazione urbana, diventerà una sorta di factory nostrana un po’ bohemienne e uno dei poli più vitali dell’arte. Tutto all’insegna del fervore operativo di quegli anni a loro modo irripetibili, quando gli artisti spesso e volentieri si riunivano in gruppi solidali come nel caso in questione o in quello di Sant’Agata dei Goti; ma questa è un’altra storia.
Si tratta di anni ancora oggi “caldi” e affascinanti, anche nelle loro aperte contraddizioni e ambiguità, in quei paradossi che hanno caratterizzato l’ambito romano in termini diciamo esemplari, nel bene e nel male: non ancora catalogati e catalogabili quantomeno secondo una visione storica obsoleta che procede per cicli che si susseguono, e non come un intreccio complesso da cui rintracciare quei fili di Arianna che riannodano il passato all’attualità.
Uno dei bandoli dell’intricata matassa potrebbe essere proprio la vicenda del sodalizio tra Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Piero Pizzi Cannella e Marco Tirelli. Un’avventura condivisa nata proprio tra le mura dei loft di Cerere, che si colloca sull’onda d’urto della Transavanguardia, da cui gli artisti prendono però immediatamente le distanze soprattutto rispetto alla pratica della citazione, rivendicando la ricerca di soluzioni nuove da un punto di vista formale, anche nell’uso di materiali eterogenei, compreso lo spazio trattato alla stregua di una delle tante materie. Con essi condividono il clima internazionale del ritorno al disegno, alla pittura e alla manualità, che riconcilia l’arte con la tradizione, compresa quella dell’Avanguardia storica, nonché con il mercato e il sistema dopo la crisi profonda espressa dalle neoavanguardie, soprattutto da quel versante radicale e afasico che porterà alcuni artisti alla rinuncia totale della produzione estetica. Costituendo una sorta di area di resistenza, l’atipico gruppo nascente si fa consapevolmente portatore anche di un’accezione diciamo “glocale” dove si interfacciano una tendenza centrifuga e una centripeta, di attenzione alla memoria e di ampliamento verso una dimensione più globale e condivisa dell’esperienza artistica, alla luce di una sobrietà ereditata dalle ricerche analitiche rispetto all’internazionalismo selvaggio e più vincente, sia per quanto riguardano le cifre di mercato che sul piano dei valori estetici.
Collocabile sull’onda lunga dell’Arte Povera, le cui premesse concepite a Roma e, guarda caso, all’Attico di Sargentini, hanno senz’altro posto le basi per alcuni ambiti creativi come quello dei sei artisti romani, a cominciare proprio dal ripristino di istanze mitiche e primarie che favoriscono quell’auraticità dell’opera come coagulo di energia creativa, contenuti ed espressione di poetica in termini decisamente introspettivi. Un’opera che riprende letteralmente corpo come una sorta di appendice dell’artista all’interno del proprio studio, luogo di vita e del ritorno al fare, carico di un fascino tutto particolare che, anche nel cinismo di quegli anni, riallacciava l’arte con l’esperienza quotidiana non tralasciando però l’istanza mentale all’interno della cornice critica, disincantata, e ironica disegnata dalla post-avanguardia dell’operatività artistica in quanto tale.
“Atelier”, dislocata proprio nei rispettivi studi di via Degli Ausoni, è pertanto la mostra che nel 1984 consacra i sei artisti al mondo dell’arte, a cura di Achille Bonito Oliva, che ne coglieva immediatamente la cifra distintiva in un libro (oggi una specie di rarissimo incunabolo) edito da Carte Segrete di Massimo Riposati, dove sono riuniti per la prima volta insieme a Domenico Bianchi, che prese subito però distanza dal gruppo nascente, dove convergevano quattro allievi di Toti Scialoja all’Accademia di Roma, (Tirelli, Nunzio, Dessì e Ceccobelli), e due tra i fautori dell’esperienza autogestita de “La Stanza”, (ovvero Pizzi Cannella e Gallo): tutti nati intorno alla metà degli anni Cinquanta, uniti da un comune imprinting elettivo all’insegna di un’eterogeneità linguistica con alcuni aspetti in comune. La declinazione piuttosto particolare del “genius loci” — che in qualche modo li riannoda idealmente alle Scuole Romane, in un’ideale continuità a partire dagli anni Trenta fino all’epilogo degli anni Ottanta, teorizzata da Giorgio Cortenova con la benedizione di Maurizio Calvesi nella mostra “Le Scuole Romane” (Palazzo Forti, 1988) —, si insinua tra le maglie di un linguaggio con una propensione metafisica e informale e un nucleo fortemente enigmatico, in una presa di posizione critica rispetto al puzzle linguistico postmoderno al concetto di simulacro come all’esplorazione stilistica fine a sé stessa, in una logica di sottrazione e costruzione, posizione apprezzata anche da Filiberto Menna.
La potenzialità della situazione nascente è fiutata con tempestività da Fabio Sargentini che ne riunì tre seguendo le indicazioni di Roberto Lambarelli e Gabriele Stocchi, ovvero Nunzio (l’unico scultore), Pizzi Cannella e Tirelli sotto il prezioso soffitto dell’Attico, mentre gli altri Ceccobelli, Dessì e Gallo dalla Galleria Ferranti passano sotto l’egida di Gian Enzo Sperone, per cui dopo le prime mostre romane seguirà per i sei artisti un lancio espositivo a livello internazionale. Da quel momento che sanciva l’inizio di un nuovo corso per i sei artisti, l’operazione condotta dai due galleristi e sostenuta da Bonito Oliva, decretava l’effettivo decollo del Gruppo o Scuola di San Lorenzo. Il gruppo, che nel senso stretto del termine non è mai stato tale, in quanto allergici di fatto a intenti programmatici, a inquadramenti teorici tout court, e a relative mitologie, matura sulla base di premesse comuni di derivazione concettuale altrettanti percorsi individuali, all’insegna di un’attenzione al processo creativo e all’aspetto di fruizione dell’opera, nella tensione verso l’invenzione di un’immagine iconica e aniconica che intreccia simbolico ed esperienza reale per una visione d’insieme originaria con accenti di intimità quotidiana.
Il loro particolare percorso, che ne fa un fenomeno più unico che raro, li annovera tra i protagonisti della trasformazione linguistica che interesserà anche gli anni Novanta, nutrendosi di un sodalizio umano e professionale, un flusso esistenziale fatto di reciproche influenze e affinità, contrapposizioni e differenze, che li caratterizza come un fenomeno più unico che raro, che continua ancora oggi a vederli in qualche modo compagni di strada, come si evidenzia in alcune mostre istituzionali (da Villa Medici a Roma nel 2006 all’ultima in ordine di tempo al MART di Rovereto nel 2009, curate rispettivamente da G. Lonardi e D. Lancioni) o in pubblicazioni (come quelle di R. Gramiccia La Nuova Scuola Romana. I sei artisti di via degli Ausoni, Editori Riuniti o quella recentissima di G. Gigliotti Sei storie. Tirelli, Pizzi Cannella, Ceccobelli, Nunzio, Gallo, Carte Segrete), dove si storicizza la loro esperienza in termini di una decisa autonomia di poetica pure all’interno di un’atmosfera comune. In realtà proprio questa è stata ed è la loro forza: il privilegiare un’identità fortemente individuale che li consegna alla contemporaneità oltre le mode e le tendenze, sfatando il luogo comune che li inquadra in una visione localistica dell’arte. Questi artisti non si sono identificati con il luogo, ma è proprio quest’ultimo che li ha identificati e ne è rimasto in qualche modo a sua volta “segnato”. Un’esperienza di dialogo e confronto caratterizzata da un’irriducibilità radicale che ha creato una vera scuola di arte e vita a beneficio anche di molti degli artisti delle ultime generazioni. Passando a S. Lorenzo o entrando nell’ex Pastificio Cerere, sede dell’omonima Fondazione, spazio che i sei artisti non condividono più se non sporadicamente, se ne percepisce ancora tutta l’energia, cosa che non può non sortire l’inevitabile nostalgia per chi quegli anni Ottanta al cospetto del loro epilogo, esuberanti, controversi e pieni di promesse, ancora paradossalmente tutti da storicizzare e “rileggere”, li ha vissuti nel bene e nel male, sulla propria pelle.