Caroline Corbetta: Come definiresti, in poche parole, quello che sei e che fai?
Serena Vestrucci: Meno mi sento artista meglio è. Mi chiedo che cosa volere da un lavoro. Cosa sto cercando all’interno di ciò che faccio? Dopo tutto, che cosa voglio? La ricerca dell’essere è in quello che si sta facendo. Tradire l’ordinario. Se fossi ingegnere, la chiusa sarebbe il tradimento di un fiume. Intendo la stessa cosa quando dico che mi piacciono i coriandoli perché per farli funzionare devi mandare tutto all’aria. L’opera è il momento in cui poi tutto si sistema.
CC: L’indeterminatezza del tentativo ti appartiene decisamente più della certezza del risultato. Hai scelto tu o ti ci sei trovata per caso in questa condizione?
SV: Sicuramente sono stata io a scegliere di frequentare Brera, di partire poi per Berlino, di provare in seguito il test d’ingresso allo IUAV di Venezia e di fare richiesta di uno degli atelier della Fondazione Bevilacqua La Masa. D’altra parte, però, penso di non aver scelto niente nella misura in cui non credo che avrei potuto scegliere altro. Durante questi anni di formazione mi è capitato di fare lavori saltuari provando sempre un profondo disagio nel sentirmi inadeguata al servire ai tavoli, nel rispondere al call center, nell’insegnare italiano agli stranieri…Voglio dire, siamo arrivati qui, nessuno lo ha deciso per noi, e ora sentiamo l’esigenza di fornirci motivazioni. Cosa siamo disposti a fare realmente?
CC: C’è stato qualcuno o qualcosa che ti ha influenzata quando eri ancora una bambina?
SV: L’ultimo anno di asilo le maestre ci lessero l’Odissea per preparare una piccola recita e io studiai come costruirmi una lancia in cartone ricoperta di una bellissima carta adesiva oro. Iniziai a vestirmi con tuniche ricavate dalle federe dei cuscini, colorate a tempera e tagliate con le forbici a zigzag. Sono cresciuta a Milano pensando che i cavalli fossero marroni, perché fatti di legno, e che dentro ci fossero piccoli uomini nascosti. Quando non sapevo ancora leggere, guardavo le figure dei libri illustrati, inventandomi, per lo stesso libro, mesi di storie diverse. Consideravo limitato un libro che nel suo essere scritto può offrire in eterno solo un’unica narrazione e trovavo molto più interessanti i disegni perché ne possono uscire sempre storie diverse. Non direi che qualcuno mi abbia propriamente avvicinato all’arte. Principalmente credo che a nessuno di noi sembri di aver ancora iniziato.
CC: Avevo notato che hai confidenza coi libri: si vede anche da come li tocchi… Mi hai appena detto che preferivi i libri illustrati per le loro possibilità interpretative. Però, a giudicare dai titoli dei tuoi lavori, che sono come dei frammenti di letteratura, le parole adesso sembrano importanti quanto le immagini e ugualmente dotate di un potere evocativo…
SV: Questa domanda capita esattamente nel momento in cui sto lavorando sulla parola scritta, cercando la forma in cui questa diventa il corpo del lavoro e non solo il titolo. Mi interessa il momento in cui la parola si fa disegno. Mi è capitato, per tutta la vita, di trovarmi a scrivere appunti di notte, al buio completo per evitare di disturbare le persone con cui, negli anni, ho condiviso le camere. Adesso sto lavorando alla mia tesi di laurea allo IUAV: al buio, di notte, la sto scrivendo interamente a mano. Il progetto si intitola Scrivere al buio è disegnare. Sarà il mio prossimo lavoro.
CC: A proposito di opere, Quel genere di cose che fai quando non lavori del 2010 è fatta, secondo didascalia, con matite colorate e tempo libero. Per me questo lavoro incapsula la semplicità dei tuoi gesti e la profondità, quasi una voragine, dei tuoi pensieri. È come se dicessi che l’arte è un gioco. Un passatempo, un momento ricreativo e non produttivo, quindi non condizionato da criteri economici. Successivamente hai realizzato altre opere in cui ritorna una riflessione sul mercato dell’arte insieme a un tentativo (frustrato) di sottrarsi a esso: la palla di ceramica che deve essere riempita di denaro dal suo acquirente (Chi riempie paga e i cocci sono suoi, 2011-2012), le teche riempite di liquido colorato in offerta “3×2” (Monocromi scontati, 2011) e, addirittura, i disegni dati in regalo all’interno di una fiera d’arte! (Ti piace? Te lo regalo, 2011); o, ancora, opere barattate con quelle dei colleghi (Piccola opera barattabile con piccola opera, 2009). Si deduce che vorresti che l’arte si slegasse dalla logica del profitto ma credi che questo sia un desiderio realistico? Tu stessa hai raccontato di non poter fare altro nella vita e allora che male c’è a considerare quella di artista anche una professione?
SV: Non so che male ci sia. Ma c’è. Provo quasi un senso di frustrazione alla fatidica domanda: “Quanto vuoi per questo pezzo?”. Che cosa devo rispondere? Mi piacerebbe che l’arte si slegasse dalla logica del profitto, ma di fatto mi chiedo allora di cosa vivrebbe l’artista. Le opere che hai citato si chiedono se l’arte sia un lavoro e che cosa significhi oggi lavoro. Chi sono i nostri padroni (intellettuali)? Quali sono i nostri diritti e doveri? Spesso mi capita di sentir dire: “Se vendi sei un grande, se non vendi sei un imbecille”. Nel caso di Chi riempie paga e i cocci sono suoi ho deciso di lasciare che sia l’opera stessa a stabilire il suo stesso valore economico: chi fosse interessato all’acquisto di questa scultura deve riempirla di denaro, potendo scegliere la valuta da inserire nell’apposita fessura. La somma complessiva raggiunta determinerà il prezzo di vendita. Mi piace pensare alla figura dell’acquirente non solo come colui che decide il guadagno di un artista, ma come co-autore dell’opera stessa che interviene sulla sua fisicità, sul suo peso specifico: la scultura che oggi pesa 40 kg potrebbe un giorno pesarne circa 400.
CC: A proposito di sistema dell’arte, ci siamo incontrate nel Crepaccio, lo scorso maggio a Milano. Se non sbaglio la tua prima personale, a cui è seguita quella alla galleria Furini di Roma a settembre. Come sono state queste due esperienze?
SV: Sono state due esperienze opposte. Nel Crepaccio dovevo fare i conti con una forma di limitazione: una vetrina, profonda 30 centimetri, affacciata sulla strada, che chiunque può fruire. Ritengo che quando un artista è chiamato a dialogare con un pubblico di non solo addetti ai lavori, la sua azione si debba caricare di un senso di responsabilità ancora più forte. In quell’occasione, decisi di non mostrare quelle opere che già possono esistere in altre situazioni, in mostre, fiere… ma, al contrario, ho voluto intendere il Crepaccio come lo spazio in cui esporre alcune cose che semplicemente si hanno in testa, “campate in aria”, senza che fossero necessariamente arte, ma come se tutte — proprio perché legittimate dal loro trovarsi insieme — potessero trovare in questo il loro senso. Mi sono sempre chiesta che cosa succederebbe se tutte le cose campate in aria fossero sospese a degli elastici. Così ho fatto. E durante i dieci giorni in cui la vetrina è rimasta allestita con il mio intervento, queste cose hanno modificato la materia degli elastici a cui erano appese muovendosi impercettibilmente, giorno dopo giorno, verso il basso. Da qui il titolo, Cose che si muovono nel crepaccio ad una lentezza tale da sembrare solo campate in aria. A Roma invece, alla mia prima personale in una galleria, mi sono trovata completamente libera di proporre qualunque progetto. Per affrontare questa totale apertura ho avuto bisogno di autoregolarmi, imponendomi una ferrea disciplina per i tre mesi precedenti la mostra. Più volte mi è stato detto che se avessi voluto fare una personale avrei dovuto iniziare a leccare anch’io. Così, quando effettivamente ho ricevuto questa proposta dalla galleria, ho provato a farlo, colorandomi la lingua e cercando di leccare (la tela) nel migliore dei miei modi. L’esercizio ha portato a continui conati di vomito. Mi sono resa conto che ci vuole una tecnica che non credo di voler imparare.
CC: Parliamo della tua estetica, che definirei gioiosa e istantanea, fatta “con poco”: pennarelli, fogli di carta o plexi colorati, legno, cartone e tutta una serie di materiali che sembrano usciti dalla cartella di un bambino…
SV: Provo grande ammirazione di fronte a chi usa materiali sofisticati e mette in atto produzioni di alto livello, ma per il momento mi piace sapere che può essere sufficiente andare a comprare quelle due o tre cose, disponibili in qualunque città, e iniziare immediatamente a lavorare a un nuovo progetto. Le difficoltà tecnico-produttive trasformano la mia spinta all’agire in un procedere zoppo di cui penso che il lavoro risenta. Detto questo, è sempre possibile che presto mi tradisca, iniziando a pensarla in tutt’altro modo…
CC: Spesso c’è un interlocutore, suggerito o esplicitato, nelle tue parole come nei tuoi titoli (Ti lascio metà fogli da collage; Tu mi hai detto cosa e io l’ho fatto; Forme di passeggiata con qualcuno…). L’azione, o anche solo il pensiero, dell’altro sembra un elemento fondamentale per completare l’opera, come se questa fosse il frutto di un esercizio collettivo… Hai sempre in mente l’altro quando lavori?
SV: Ho sempre in mente un dialogo, una tessitura di azioni che riguarda l’economia (di tempo, di denaro…), lo scambio, la sostituzione. E all’interno di questo penso al fruitore. Che cosa diventa? Come mi è stato fatto notare, non deve essere solo un tramite per l’esperienza dell’artista. Quando sono io il fruitore che cosa cerco in un’opera d’arte?
CC: Sei una che si interroga in continuazione. Eppure arriva il momento in cui tutte le tue elucubrazioni giungono a una soluzione e arriva, come dici tu, “il momento in cui tutto si sistema”, l’opera d’arte. Come coniughi questa tua tendenza all’approfondimento, alla speculazione continua e teoricamente infinita, con la pratica, il fare?
SV: “Fare” significa prendere una posizione. Farlo sul serio. Non fingere. Essere o non essere parte dell’opera, essere o non essere autore dell’opera, essere o non essere contro l’arte. L’arte è da sempre una questione di posizione: posare supini o proni determina la distanza tra l’Olympia di Manet e Lo spirito dei morti veglia, dipinto da Gauguin trent’anni dopo.
CC: Già prima di iniziare questa intervista, avevo in mente il titolo, tratto da una tua dichiarazione: “Mi sono sempre chiesta perché i film fanno piangere e le mostre no”. Cerchi la componente emotiva in un’opera d’arte e pensi che i “fruitori” la cerchino nelle tue?
SV: Quando osservo un’opera cerco di rendere più complessa la mia relazione con il mondo. È un rapporto di coppia, è il momento in cui posiamo gli occhi sul mondo attratti dal desiderio di conoscerlo, di entrare in relazione con esso. Nel fare questo non voglio dire che necessariamente sia importante commuoversi ma, a un certo punto, non è più questione di spiegazione, di didascalia, di parola. C’è qualcosa che devi sentire. O lo senti, o non lo senti. O c’è, o non c’è.