La sovrapproduzione nell’arte è un fenomeno comune oggi. A questo proposito, con “What Do People Do all Day” e “Boulevard of Crime”, Simon Dybbroe Møller raddoppia la posta in gioco e presenta, da Francesca Minini a Milano, due mostre apparentemente non collegate tra loro, ciascuna rispettivamente con titolo e comunicato stampa propri. Con una trovata alla Michael Asher, Dybbroe Møller è intervenuto sull’architettura della galleria spostando letteralmente gli uffici nello spazio espositivo per allestire What Do People Do All Day (2020-2022).
Disposti ordinatamente sulle scrivanie dello staff, tutti i desktop, tablet e laptop sono sincronizzati per riprodurre i quattro episodi della serie di cortometraggi prodotti dall’artista (una commissione del collettivo DIS): un adattamento televisivo dell’omonimo libro per bambini di Richard Scarry del 1968, in cui gli abitanti della cosiddetta ‘Busytown’ svolgono i loro mestieri quotidiani, secondo ruoli familiari e consolidati che assicurano il buon funzionamento della società. Al posto di animali antropomorfizzati, però, Dybbroe Møller ha un cast di modelli avvenenti che, colpiti dal vento e inzuppati d’acqua, si spogliano delle loro uniformi e copulano. Il modo in cui il lavoro viene presentato qui è astratto, fluido e libidico, meno tradizionale e più vicino all’immaginario del XXI secolo.
Di recente un mio amico mi ha confidato che sta leggendo What Do People Do All Day ai suoi figli, e ha concluso rimarcando che oggi siamo un po’ tutti ‘sex workers’. Dal momento che lo screen time è lo spazio operativo comune a molti dipendenti, anche la routine quotidiana della galleria è coinvolta, così ogni volta che entra un visitatore inizia la riproduzione dei film interrompendo qualsiasi lavoro si stia svolgendo – non a caso, quando chiamo per chiedere le immagini della mostra, la persona con cui parlo mi dice che me le invierà quando i visitatori avranno lasciato la galleria.
Contestualmente, Dybbroe Møller ha allestito anche “Boulevard of Crime”, una mostra parallela attorno a un tema piuttosto circoscritto, che utilizza la fotografia pionieristica di Louis Daguerre scattata al Boulevard du Temple a Parigi per speculare su un aspetto della società industrializzata, il commercio, catturato dal mezzo fotografico nella sua prima messa in forma. L’immagine di Daguerre (coniata da lui stesso come ‘dagherrotipo’) è storicamente molto discussa in quanto dai più considerata la prima fotografia in assoluto che immortala degli esseri umani – nella fattispecie, le due piccole figure fuori fuoco di un lustrascarpe e un cliente sopravvissuti ai cinque minuti di esposizione.
Ad ogni modo, l’artista è più intrigato dal fatto che i due soggetti sono impegnati in un’azione di natura transazionale. L’uno lavora per l’altro, o forse, più specificamente, nell’ambito di un’industria di servizi. Così come una parte della (nuova) forza lavoro che appare in What Do People do All Day è oggi sinonimo di gig economy, il mercato del lavoro nella rappresentazione di Daguerre è un mercato al servizio degli altri.
D’altra parte, l’artista mette in evidenza l’allusione alla criminalità (o, più appropriatamente, al crimine come contesto), di cui la fotografia continua a essere complice. Sebbene il Boulevard du Temple fosse precedentemente conosciuto come ‘Boulevard du Crime’, l’associazione tra i due termini è impropria: la strada si è guadagnata questo soprannome in virtù del fatto che i suoi teatri erano noti per mettere in scena melodrammi a tema criminale — del resto, prima di dedicarsi alla fotografia Daguerre aveva ideato e gestiva il “teatro di Diorama”. Il crimine è dunque legato alla teatralità e ho l’impressione che per Dybbroe Møller la fotografia diventi un palcoscenico su cui mettere in scena queste idee. In mostra, una serie di fotografie a colori di grandi dimensioni ritraggono due donne (Sisters, 2022), un neonato dai capelli rossi (Baby, 2022) e un mazzo di fiori (Tulips, 2022) osservati da dietro barriere di vario tipo – dalle sbarre del carcere, riconoscibilmente verticali, alle recinzioni di rete metallica. Da quale parte di queste barriere si trovi il soggetto e da quale punto di vista si trovi lo spettatore è ad ogni modo ambiguo anche se, in quanto spettatori, noi siamo sempre all’esterno: l’innocente che guarda il colpevole.
La macchina fotografica cattura i suoi soggetti e li incrimina. Eppure, il crimine è esso stesso un mestiere. Tra tutti i lavori, Boulevard of Crime I-III (2022) incapsula perfettamente le complicate relazioni tra lavoro, trasgressione e teatro, proposte da questa mostra insolita. Diverse paia di piccole scarpe lucide nere, appese per i lacci, pendono da lampioni in miniatura prodotti nello stile delle lampade a gas parigine del XIX secolo. Le scarpe impigliate ai fili del telefono sono un’immagine folcloristica delle transazioni criminali per antonomasia, in quanto presunti segni in codice indicanti luoghi di incontri e spaccio di droga. Le sculture di Dybbroe Møller per certi versi teatralizzano lo spazio della mostra come uno spazio in cui lavorare con la pratica fotografica è come riesaminare il dossier di un caso.