Emanuele Fontanesi: Il suo lavoro ha subito uno sviluppo dal momento in cui ha iniziato la sua carriera a oggi? Oppure ogni progetto esiste praticamente per se stesso?
Sophie Calle: Non mi pongo questo genere di domande. Se ho la fortuna di trovare un’idea che mi pare funzioni non mi chiedo come si posiziona in rapporto al passato o al futuro. Rifletto sulle modalità di presentazione e mi chiedo quale interesse potrebbe suscitare in me e negli altri. Nonostante non lo faccia di proposito, riconosco l’esistenza di una linea conduttrice che stabilisce un legame tra tutti i miei lavori ma non lo decido a priori progetto per progetto.
EF: Quindi non riconosce un’evoluzione nel suo lavoro?
SC: Forse, direi sicuramente, visto che sono passati 30 anni da quando ho cominciato. Direi piuttosto che ci sono stati cambiamenti ma non sono frutto di una tattica.
EF: Almeno non nel senso di un cammino verso una meta.
SC: No. O meglio, sì, verso la morte.
EF: La meta di tutti. Potrebbe parlare del rapporto tra scrittura e immagini?
SC: Ci sono dei progetti in cui ho delegato ad altre persone la produzione d’immagini facendo ricorso a dei fotografi, per esempio. In altri casi ho deciso di delegare o, al contrario, di occuparmi di entrambi gli aspetti. Questa scelta dipende dal mio ruolo all’interno del progetto. Quando decisi di seguire le persone per strada ero obbligata a occuparmi della scrittura e della realizzazione delle foto. Al contrario per Disparitions (Tableaux volés) ho domandato l’aiuto di un fotografo che conosceva alla perfezione, tecnicamente, quello che occorreva fare. Non ci sono regole. Ci sono momenti in cui il rapporto con il soggetto è fondamentale, ma direi che in generale è una questione funzionale.
EF: E quando diventa una questione di scelta estetica?
SC: Anche a questo riguardo non ci sono regole che mi impongo. A volte si tratta di documentazione, a volte ho cercato una precisa resa estetica, soprattutto quando ho delegato ad altri la scrittura come nel progetto Prenez soin de vous (2007). È questione di determinare il mio ruolo all’interno del progetto.
EF: Questo mi fa pensare al progetto con Baudrillard, progetto che si è rifiutata di portare a termine per lungo tempo.
SC: Giustamente, perché non trovavo il mio spazio. E solo in quanto “progetto sul fallimento”, sedici anni dopo, l’ho portato a termine.
EF: Per quanto riguarda il rapporto tra scrittura e immagine, esiste una gerarchia assoluta o relativa?
SC: Ho da sempre avuto l’impressione che le mie foto non potevano esistere da sole, le immaginavo all’interno di una struttura narrativa insieme alle parole. Lo stesso discorso si può fare per la scrittura. Le storie mi parevano povere senza le immagini e quindi utilizzare i due media era una conseguenza logica. In più mi piaceva fotografare e amavo scrivere.
EF: Quali sono le sue maggiori influenze? Pensavo alla Narrative Art, sbaglio?
SC: Duane Michals è stato il primo artista che ho conosciuto che utilizzava il testo e l’immagine in questa maniera.
EF: C’è uno scarto o scrittura e immagine si sostengono ?
SC: C’è più semplicemente un rapporto.
EF: Lei si è mai messa in pericolo, di proposito o meno, attraverso il suo lavoro? Ha mai perso il controllo? Pensa che il suo lavoro abbia una funzione terapeutica?
SC: Sì, si tratta di piccoli pericoli, ma sì, e una volta penso di aver perso il controllo, penso a quando ho ritrovato l’agenda telefonica e il lavoro che ne è fuoriuscito. Mi sono innamorata del proprietario dell’agenda. E posso dire che ha una funzione terapeutica ma non è certo la ragion d’essere del mio lavoro. A volte capita, ma è come la ciliegina sulla torta.
EF: A questo proposito, questo interesse per i dettagli la aiuta in qualche maniera a vivisezionare il problema e ad analizzarlo con una certa distanza?
SC: Non direi, l’amore per i dettagli è legato ad altro. I dettagli sono qualcosa a cui sono sempre stata interessata. Quando decisi di seguire sconosciuti, ciò a cui ero interessata era proprio il fatto che, se di solito quando una persona ci viene presentata in qualche minuto possiamo definire socialmente chi abbiamo di fronte, qui era questione di dettagli di diversa natura: se uno dorme a destra o a sinistra, se si lava i denti prima o dopo aver fatto colazione. Trovo tutto questo più emozionante.
EF: Per lei il “personale è politico”? Le domando questo anche in relazione al suo passato da femminista.
SC: All’inizio degli anni Ottanta volevo essere un’artista militante, ma non riuscivo a trovare idee che soddisfacessero questo desiderio. Le idee che avevo erano legate alle mie esperienze personali. Mi sarebbe piaciuto fare arte politica ma le mie idee erano di natura differente. Quindi decisi di abbandonare l’idea perché ogni volta pensavo al mio dolore, ai miei problemi. Allo stesso tempo penso che una dimensione politica esista nel mio lavoro se non altro perché la maggior parte di persone che visita le mie esposizioni sono di sesso femminile e di conseguenza penso che ci sia qualcosa che parli di più alle donne. In tutti i casi non è una domanda che mi pongo prima di iniziare un progetto.
EF: Lei ha cominciato a lavorare in piena “epoca postmoderna”. Vorrei sapere come ha gestito l’essere un individuo e un autore.
SC: Anche questa non è un genere di domanda che mi pongo, è piuttosto alla critica d’arte da porsi questo tipo di questioni.
EF: Nel suo caso è il lavoro che parla. Quale è il rapporto tra i tre progetti Les Aveugles, La Dernière Image, Voir la mer?
SC: Per il primo progetto del 1986 trovare delle persone diventate cieche si è rivelato difficile. L’idea era di domandare loro qual era l’ultima immagine di cui avevano memoria, ma ho messo il progetto da parte, il tempo è passato e l’ho in qualche maniera dimenticato. Nel 2011 in occasione della Biennale d’Istanbul sono ritornata a questa idea visto che mi era richiesto di lavorare su un progetto legato alla capitale turca e ho letto che Istanbul è chiamata “La città dei ciechi”. Il progetto Voir la mer è capitato un po’ per caso. Anche in questo caso lessi di persone che non avevano mai visto il mare e se ne parlava come di una categoria sociale. Persone talmente povere e socialmente escluse che, nonostante vivano in una città circondata dal mare, non l’hanno mai visto. Questa idea mi ha fatto un po’ paura all’inizio perché non volevo fare della televisione. Accompagnare queste persone a vedere il mare per la prima volta, filmarle, le emozioni, le lacrime: processi che sono antrati a far parte del registro televisivo. Tutto questo è legato ai Reality Show. Quindi avevo paura che questo progetto risultasse indecente, e allo stesso tempo ne ero realmente attratta perché lo trovavo bello. E quindi ho pensato di posizionare la macchina da presa dietro di loro. In questa maniera loro avrebbero goduto di questo momento in solitudine e allo stesso tempo le persone di schiena comunicano diversamente ma con la stessa forza e questo la televisione, a quanto mi pare, non l’ha ancora capito.
EF: Penso anche a Luigi Ghirri che, mostrando le persone di schiena, veicola un messaggio totalmente diverso del cliché.
SC: Ho chiesto l’aiuto della direttrice della fotografia Caroline Charpentier dal momento che non potevo permettermi di fare errori. Non sarebbe stato possibile filmare qualcuno che guarda il mare per la prima volta, una seconda volta. La mamma con il bambino in braccio è la prima persona che abbiamo filmato. Avevo messo una camera dietro e una a lato perché non sapevo ancora esattamente quello che volevo. Sono rimasta a lato della donna, lei piangeva e parlava al mare. Una volta che si è voltata era impassibile: ho preferito questa versione distante alla versione emozionale.
EF: Anche lo spettatore avrebbe ricevuto un messaggio ben diverso.
SC: Sì, in più mi sono detta che sarebbe stato un momento molto particolare per queste persone, allora anche se all’interno di un progetto artistico, mi sembrava giusto lasciare loro questo momento senza essere osservati o filmati. Inoltre in questa maniera ho lasciato piu spazio all’immaginazione lasciando questa sorta di libertà. Allo stesso tempo ho evitato le costrizioni del linguaggio televisivo. D’altra parte Voir la mer è stato il mio primo progetto senza testo.
EF: Crede che avrebbe potuto farne uso?
SC: No, perché le immagini in questo caso non hanno bisogno di essere accompagnate da un altro linguaggio.
EF: Tutto questo mi fa pensare al concetto di sublime, ma in senso laico.
SC: È buffo, pensi che mi hanno proposto una mostra in una chiesa e mi sono detta che l’unico progetto che avrei mostrato sarebbe stato proprio questo. Anche se da parte mia, in effetti, non c’è alcun sentimento religioso.
EF: Lei ha collaborato in varie occasioni con Baudrillard.
SC: Innanzitutto era lui che scriveva su di me, dunque la nostra relazione non è cominciata sotto forma di collaborazione artistica. In pratica Baudrillard era uno dei miei professori a Nanterre e ho avuto l’occasione di parlargli del mio lavoro. Si è servito del mio racconto de La Filature in uno dei suoi libri e in seguito gli ho domandato di aiutarmi scrivendo una prefazione per la mia prima pubblicazione. In un secondo momento gli chiesi se poteva partecipare a un mio progetto.
EF: Che rapporto ha con i nuovi media, con l’interattività? Fa o farebbe uso di questi strumenti?
SC: Non credo, ma è possibile che cambi idea, questi strumenti mancano di poesia. Ma non sono contro a priori, se un giorno mi dovessi rendere conto che una mia idea potrebbe funzionare meglio, ad esempio se dovessi recapitare un messaggio e ritenessi i giornali in qualche maniera obsoleti, farei uso di questi strumenti. Ma, ripeto, anche uno strumento come il telefono, che ho già utilizzato, ha un’aura di mistero che non riesco a individuare nei nuovi media.
EF: Si riferisce alla visibilità imperante veicolata anche attraverso Internet.
SC: Per il momento preferisco lasciare un bigliettino su una panchina e sperare che qualcuno lo trovi. Tale gesto mi corrisponde meglio.
EF: Cosa potrebbe dire della nozione di autore in relazione al suo lavoro? Ha iniziato in un momento in cui le tesi di Barthes e Foucault erano molto in voga. Questo anche in rapporto all’idea di assenza che è onnipresente nel suo lavoro. C’è la morte dell’autore da una parte e la sua assenza, ben più prolifica da un punto di vista soggettivo, dall’altra.
SC: La morte dell’autore non è il mio vocabolario. L’assenza, al contrario… Se si dovesse cercare un filo conduttore che unisce i miei progetti, più che la scomparsa, la morte, l’autobiografia, direi l’assenza. Perché? Non lo so. Ma una ragione deve esserci.
EF: Per ritornare alla fotografia, visto che usa questo medium per fornire di tracce, come vive la rivoluzione digitale?
SC: Io uso quello che ho a portata di mano. Se l’immagine funziona, se la mia idea funziona, non mi interesso a questo genere di questioni.
EF: So che lei ama i rituali: deriva dal suo essere donna, alla Maya Deren?
SC: Tutto deriva dal mio gusto del gioco. Mia madre amava giocare, la mia infanzia è legata a questo tipo di esperienze e a posteriori è diventata una maniera di vivere. Creare regole del gioco alle quali obbedire è una maniera di creare sensazioni e sentimenti e allo stesso tempo avere il potere di controllare tutto questo, questo è ciò che permette il rituale. Lo stesso progetto sul diario di mia madre (Rachel, Monique, Festival D’Avignon, 2012) è legato a questo discorso. Se non avessi dovuto seguire delle regole, non sarei mai riuscita a completare la lettura dei suoi diari.
EF: Attraverso il suo lavoro lei crea la propria identità?
SC: È la mia vita, si sviluppa da sola attraverso il mio lavoro. Si tratta di vivere la mia vita.