Aaron Moulton: Ti sei formata al Royal College of Art di Londra come pittrice, ma il tuo lavoro include anche scultura, disegno, performance. Come prendono forma le tue idee?
Spartacus Chetwynd: È importante per me bilanciare il peso di ciascuna delle pratiche artistiche che porto avanti. Fare una performance significa collaborare con persone diverse, occuparsi della realizzazione dei costumi e dell’allestimento. Impiego circa un mese per prepararmi a una performance, dopodiché mi prendo un paio di mesi per dipingere. È un sollievo avere a disposizione un periodo tranquillo per fare un lavoro che mi richiede solo di stare in una stanza con una scatola di colori. Non potrei sopportare di avere una sola modalità di lavoro. Stare rinchiusa tutto l’anno come una tranquilla pittrice mi farebbe impazzire.
AM: Come fai a trattare con la stessa intensità di indagine soggetti tanto diversi come i pipistrelli, le varie interpretazioni di una storia religiosa o le mitologie classiche e popolari? I tuoi soggetti sono qualcosa di più di una fonte di ispirazione. Sono piuttosto un medium che produce il suo stesso corpo di lavoro.
SC: Le idee mi vengono “inaspettatamente”, alla William Blake. Se un’idea mi entusiasma cerco di metterla in pratica nel modo più logico possibile. Non è qualcosa di meditato o calcolato, più un entusiasmo sovraeccitato. Dopo il primo lampo di ispirazione faccio disegni e progetti, mi confronto con la mia troupe. Sembra che io lavori sull’idea di riabilitazione o traduzione, qualcosa di completamente fuori moda oggi, di nessun interesse per la corrente che fa tendenza, di cui però penso valga la pena cantare e ballare. Meatloaf, George Stubbs o Yves Klein sono alcuni esempi. Più ricerco e più penso che abbiano così tanto materiale fantastico qui, perché la gente non li apprezza di più? È un po’ un caso di amore per il perdente.
AM: E con qualcosa come i pipistrelli…
SC: A cui culturalmente viene sempre dato un brutto significato.
AM: Hai visto i pipistrelli che hanno portato alla performance Bat Out of Hell di Liverpool nel 2004? Anche i tuoi dipinti sembrano sempre degli studi o parti di qualcosa di più grande.
SC: Vuoi dire se ho visto il progetto originale del pipistrello che poi si è sviluppato in Bat Out of Hell? Veramente no. A essere sincera, ho trovato un libro fantastico nella sezione di zoologia della biblioteca dello University College di Londra, con meravigliosi ritratti di pipistrelli. Il fotografo aveva montato queste immagini su sfondi color turchese, che rimandano in tutto e per tutto a Holbein. Mi chiedo se sia stata una cosa voluta. Così somigliano stranamente ai dipinti di un miniaturista del Seicento, oppure ai dipinti del Papa di Francis Bacon dai volti deformati. I pipistrelli somigliano a uomini autorevoli in pompa magna, leggermente deformi eppure anche bulbosi e altezzosi. Quando ho visto queste immagini, per un attimo ho pensato che avrei potuto usarli come dei comici anti-eroi. La classica tensione in pittura tra repulsione e attrazione… Dal punto di vista pittorico può sembrare semplicistico, ma nel mio caso li rende dei soggetti perfetti, dalle caratteristiche intriganti, repellenti, eppure antropomorfe e con una storia che li associa al male. In quel lavoro, quindi, sono state queste fotografie zoologiche a dare inizio a tutto. Sapevo che sarebbero stati dei buoni soggetti pittorici perché il fotografo aveva già fatto il salto.
AM: L’impressione è che tu voglia prendere le distanze dai materiali tradizionali muovendoti tra il nylon e il latex e la pittura per esempio.
SC: Sì, quando ho studiato antropologia sociale mi sono imbattuta nella definizione di bricolage come modo anticonvenzionale di lavorare formulata da Levi Strauss (in La pensée sauvage). Il termine viene usato per descrivere un approccio pratico e intuitivo. Chi fa bricolage non usa strumenti formali adatti a una funzione specifica. Al contrario, prende qualsiasi cosa a portata di mano e la mette insieme. Io penso di essere particolarmente sperimentale con i materiali per le performance. Di recente mi sono interessata all’uso della mussola, dell’inchiostro e della colla di amido per fare dei cappelli a cilindro. Uso sempre molto cartone e latex, e non potrei vivere senza la mia pistola a caldo. Di recente ho anche scoperto le tubature idrauliche.
AM: Quando metti in relazione tutti questi soggetti disparati in una performance, come riesci a costruire una narrazione? Spesso si vede che sono ragionati, ma ancora casuali.
SC: È il modo migliore per descriverli. C’è molta ricerca da parte mia, ma allo stesso tempo la loro unione è completamente casuale. C’è un po’ del polipo di Hokusai accanto alla vita sessuale dell’imperatore Nerone e a Bat Out of Hell di Meatloaf. Nel cercare di trovare un equilibrio i riferimenti culturali dovrebbero essere stridenti ma anche sufficientemente autoreferenziali, in modo che qualcuno possa trovarvi delle associazioni eppure apprezzarne anche le ovvie giustapposizioni. La lettura dovrebbe essere piuttosto naturale, come facciamo con la pubblicità.
AM: Realizzi anche delle locandine che danno indicazioni al pubblico.
SC: I libretti contengono il materiale originario da cui sono partita. Un’altra cosa molto importante è pubblicare la lista dei ringraziamenti. Sono convinta che il segreto della collaborazione stia nel riconoscere il merito di ognuno.
AM: Le tue performance hanno un’evidente qualità amatoriale. Chi sono i partecipanti e come vengono realizzate?
SC: La cosa più importante è che gli attori non sono dei professionisti ma amici, familiari o gente incontrata in discoteca. È importante che gli attori seguano le fasi di realizzazione dei costumi e capiscano l’impegno che si è messo. Potrebbe sembrare strano ma se, per esempio, una persona è orribile come l’incredibile Hulk o interpreta fisicamente il più fantastico barboncino, e allo stesso tempo è veramente contenta di farlo, qualcuno nel pubblico potrebbe notarlo e apprezzarlo. Il casting è importante perché c’è una sensibilità verso il ruolo che ogni attore interpreta. Si può avvertire il sentimento che un attore prova facendo quello che sta facendo. È importante che ci siano degli aspetti sottili e ben meditati che tengano insieme il tutto.
AM: Dato che in genere provate una sola volta, molte interpretazioni sembrano lasciate all’improvvisazione. C’è uno slittamento interessante tra il ruolo e l’autocoscienza del ruolo stesso…
SC: Questo deriva dal teatro di Brecht, quando non c’è una sospensione del “credere”, la differenza di cambiare davanti a qualcuno e di affermare che stai rappresentando un ruolo. Un attore che dice “adesso interpreterò una donna anziana” e indossa il costume davanti al pubblico, fa la stessa cosa di uno che sta interpretando il personaggio, e poi fa una pausa per sorseggiare una birra o controllare il cellulare. Io utilizzo delle semplici linee guida per tracciare uno schema in cui far lavorare gli attori. Si tratta di “appigli” che offrono qualcosa a cui tenersi aggrappati durante la performance, come un quadrato tracciato sul pavimento. Gli attori sanno che durante la loro estasi espressiva, quando cambia la musica, dovrebbero spostarsi all’angolo successivo. C’è una via di mezzo tra il dar loro sufficienti informazioni così che abbiano l’impressione di sapere quello che stanno facendo, ma non tanto da negare l’improvvisazione, e il far sentire loro il bisogno di fare altre prove.
AM: Tendi a far partecipare attivamente il pubblico in modo che vada oltre il semplice assistere. Come questo si relaziona a un lavoro come The Walk to Dover che esula completamente dal pubblico?
SC: Quello era veramente il gesto romantico di lasciare la città e immergersi nella campagna. La partecipazione del pubblico poteva comunque esserci nel seguire la camminata nell’occhio della mente, la nozione romantica del sapere che stavamo camminando. Similmente agli artisti della Land Art, era come lasciare la galleria. Qualsiasi persona poteva essersi unita a noi e aver camminato insieme a noi. Alcuni bambini in bicicletta si sono inginocchiati e ci hanno reso il saluto “Wayne’s World” mentre attraversavamo la loro proprietà. La parte cruciale del lavoro era proprio la camminata. Sto pensando che se dovessi fare di nuovo qualcosa di simile non ci sarà bisogno di alcun tipo di performance, che può essere qualcosa di effimero, come un gesto.
AM: Con Dover ti stavi completamente distaccando dalla sicurezza del contesto artistico: ci sono passanti, persone in automobile… In un ambiente più formale, per esempio quello che hai creato con il Cugino Itt nella Walker Gallery di Liverpool offrendo visite guidate al pubblico dei non iniziati e non informati, non c’era una certa imprevedibilità nella situazione?
SC: Avvalendomi di qualcuno come il Cugino Itt credo di aver tenuto il piede in due staffe: ti aspetti che faccia colpo sulle signore, è uno che ti mette a tuo agio perché è comico, è tutto capelli! Stesso discorso con Jabba: quando lo guardo vedo un adorabile mostro. La sua piccola bocca arcigna è ridicola. Penso che Jabba e il Cugino Itt siano dei veri comunicatori!
AM: Con Jabba era una situazione un po’ particolare, visto che ospitavi un forum per parlare della politica mondiale…
SC: Sì, Jabba era perfetto per parlare dei problemi del mondo. La lingua umana che conosce è il Frasi. La donna incredibilmente sexy che traduce in Inglese il Frasi di Jabba fa la corrispondente dall’Iran per il Sunday Times. A essere sincera, sembra che io abbia un legame naturale con un pubblico non artistico, dal momento che la materia prima che utilizzo viene dalla cultura popolare. Quando andavo al college le persone che impazzivano per il mio lavoro erano le guardie di sicurezza. Ma in ogni caso, cosa vuol dire “pubblico non informato”? Non penso serva un’educazione artistica per interpretare una pubblicità. Fa parte delle capacità di ognuno.
AM: Porti il tuo pubblico a calarsi in un personaggio, che sia l’ospite di una visita guidata o il partecipante di una tavola rotonda sulla politica mondiale. Con l’Iron Age Pasta Necklace Workshop (2005), ad Artissima di Torino, infrangevi con i tuoi personaggi le gerarchie sociali umiliando i collezionisti. C’è un evidente ammorbidimento dell’austerità di un soggetto.
SC: In quel caso avevo cercato di rendere qualcosa di erudito, accademico e inaccessibile ai più, alla portata di tutti. Il Cugino Itt ha offerto su George Stubbs un’efficiente (benché tradotta) visita guidata della galleria. Ho cercato di rendere le cose, come l’elegante gioielleria romana nel British Museum, accessibili, goffe e divertenti, disseminando informazioni, spero in un modo non accondiscendente e nemmeno completamente riconoscibile. Il problema, come per ogni format, è che una volta che lo si è reso riconoscibile rischia di crollare. Come nella famosa battuta dei Simpson, quando Marge dice: “Ho paura solo di ciò che è estraneo”. Deve esserci un po’ di estraneità perché sia intrigante, in modo da permettere alle persone di abbassare la guardia e lasciarsi coinvolgere. Sicuramente utilizzo molti schemi prestabiliti, ma guardo anche a quello che è interessante in questo momento, come cercare di porre uno stacco tra il teatro tradizionale e il carnevale. Forse il fatto è che il mondo dell’arte ha avuto molta performance politica,“fisica”, e ora accoglie volentieri quegli artisti che utilizzano il teatro come fonte di ricerca. Mi sto concentrando su quello che penso sia interessante in questo momento, ma non in modo freddo o calcolato. È qualcosa di più intuitivo.
AM: Quali altre discipline ti piacerebbe includere nel tuo lavoro?
SC: Vorrei migliorare le mie capacità di modellista. Sarebbe bellissimo confezionare abiti medievali e indossarli per un anno intero.