La mostra itinerante “Night Fever. Designing Club Culture. 1960 – Today”, prodotta dal Vitra Design Museum insieme all’ADAM – Brussels Design Museum e recentemente approdata anche al Centro Pecci di Prato, è l’ultima di una lunga serie di iniziative volte a celebrare e ripercorrere la storia del clubbing1. Il tema, nella maggior parte dei casi, è stato finora affrontato con un’attenzione quasi esclusiva agli aspetti socio-culturali del fenomeno e al loro indissolubile legame con l’architettura e il design dei locali che ne hanno segnato la nascita e diffusione. Una chiave di lettura che, al netto dei suoi indiscutibili meriti, ha tuttavia lasciato in ombra un aspetto importante della questione: quello relativo ai rapporti fra club culture e arti visive. Approfondire questo legame, infatti, non consentirebbe soltanto un migliore inquadramento storico del clubbing, soprattutto in relazione alla sua genesi negli anni Sessanta, ma anche di valutare l’influenza che il fenomeno ha a sua volta esercitato sulle coeve ricerche artistiche. Una prospettiva d’indagine tanto più significativa se si considera, oltretutto, l’arco cronologico di riferimento: una decade caratterizzata da quella profonda contaminazione di mezzi espressivi, attori e spazi che, in un celebre scritto pubblicato proprio in quegli anni, Dick Higgins definisce Inter-media2.
I numerosi club realizzati in Italia a partire dalla metà dei Sessanta rappresentano, da questo punto di vista, un interessante case study, particolarmente indicativo sia per la precocità con cui il fenomeno si manifesta, sia per alcune sue caratteristiche peculiari rispetto allo scenario internazionale. Il loro archetipo si può rintracciare nel Piper che aprì i battenti a Roma nel febbraio 1965, all’interno di una ex sala cinematografica riallestita da Francesco Capolei, Giancarlo Capolei e Manlio Cavalli in collaborazione con Claudio Cintoli. Qui, come si legge in un articolo pubblicato nel settembre dello stesso anno su Marcatré, architetti e artista danno vita a un «ambiente “happening”» che punta all’«eliminazione di ogni tradizionale barriera fra […] spazi attivi e passivi»3.
Questo tema è al centro anche del corso di architettura degli interni che Leonardo Savioli tiene presso l’Università di Firenze nell’anno accademico 1966-67, intitolato, appunto, Spazio di coinvolgimento e dedicato proprio sulla progettazione di un locale di svago e spettacolo. Al corso, fra assistenti, collaboratori e studenti, partecipano diversi protagonisti della storia del clubbing italiano di fine Sessanta. Tra questi c’è Adolfo Natalini che, insieme a Savioli, firma i testi di presentazione dei progetti degli studenti pubblicati nel luglio 1968 sulle pagine di Casabella. Lo scritto analizza il tema dello spazio di coinvolgimento in relazione alle possibilità progettuali offerte dall’impiego di nuove tecnologie e dal dialogo con le arti visive, in particolare con le correnti della Pop art e dell’Arte programmata4. Si tratta di aspetti che, presenti soltanto in nuce nel Piper di Roma, trovano una prima, compiuta espressione nell’omonimo locale torinese progettato da Pietro Derossi (pure coinvolto come collaboratore nel corso di Savioli) insieme a Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso.
Il Piper che inaugura a Torino nel novembre 1966, pur richiamando indubbiamente l’estetica di chiara matrice pop del suo predecessore romano, presenta infatti alcune importanti novità. Queste riguardano proprio l’impiego di materiali e tecnologie d’avanguardia, soprattutto in relazione a un’idea di coinvolgimento sinestetico che viene qui ulteriormente sviluppata guardando anche alle sperimentazioni di Arte programmata. Basta pensare alla «macchina luminosa» progettata da Bruno Munari che, con le sue proiezioni, (de)struttura continuamente gli spazi del locale. O ancora alla scala d’ingresso del club ideata da Sergio Liberovici che, al passaggio degli avventori, genera composizioni stocastiche sempre diverse mixando un’ampia gamma di suoni5. Questi dispositivi si riconnettono chiaramente alle ricerche sugli ambientiimmersivi e interattivi che gli operatori di area programmata sviluppano a partire dalla metà degli anni Sessanta. «In fondo», come ha recentemente notato Marco Meneguzzo, «tutte le discoteche […] sono anche il frutto delle ricerche programmate»6. La questione dello spazio di coinvolgimento, d’altro canto, risulta inseparabile dall’idea di ambiente flessibile e polifunzionale che anima la progettazione della maggior parte dei club, compreso il Piper di Torino. Qui le pedane mobili e i binari disseminati sulle pareti e il soffitto del locale consentono di modificarne continuamente la conformazione spaziale, adattandolo a un’ampia e variegata programmazione che, oltre ai concerti, comprende spettacoli teatrali, mostre d’arte, happening, performance e sfilate di moda7.
All’interno di un così ricco palinsesto di eventi le arti visive ricoprono, ancora una volta, un ruolo di primo piano, non soltanto per la quantità e qualità dei contributi ospitati nel club torinese, ma anche e soprattutto per il particolare dialogo che questi intrattengono con i suoi ambienti. Fra i lavori in questione c’è, per esempio, l’happening «al poliuretano» realizzato in chiusura della mostra dei Tappeti natura di Piero Gilardi, allestita all’interno del Piper nel gennaio 1967. Secondo quanto ricorda l’artista in un resoconto di poco successivo, «la rappresentazione si è conclusa con un enorme fungo espanso, traboccato da un secchio […]. Dal fungo, subito solidificato, la gente ha cominciato a cavare proiettili, iniziando una specie di battaglia così accanita da farmi temere che, da un momento all’altro, quelli rimasti a corto di munizioni tirassero giù anche i miei tappeti. Ad un tratto», conclude Gilardi, «mi sono accorto che la battaglia si era stemperata nello shake»8. Questa forma di coinvolgimento diretto dello spettatore, qui di fatto sperimentata per la prima volta, diventerà un elemento ricorrente nella successiva produzione dell’artista che, negli anni a seguire, dedica al tema crescente attenzione.
Un ulteriore esempio è poi fornito dalla prima azione pubblica che Michelangelo Pistoletto, nel marzo 1967, mette in scena nel locale torinese. Protagonisti dell’evento sono circa trenta persone con indosso una maschera del volto dell’artista e fra le mani lamine d’acciaio specchiante (del tutto simili a quelle impiegate da Pistoletto per realizzare i suoi famosi quadri che pure, per l’occasione, sono esposti nel club). Queste piccole lastre, mentre l’orchestra suona, vengono utilizzate in modo da produrre rumori e riflessi luminosi, per essere poi depositate a terra in maniera tale da formare un pavimento su cui ballare. Anche nel caso di Pistoletto, come in quello di Gilardi, si tratta del primo di una lunga serie di lavori che vedono il pubblico protagonista: un’idea che sembra dunque svilupparsi proprio in rapporto con lo spazio del Piper di Torino, del quale vengono chiaramente sfruttati alcuni elementi caratteristici e, per quanto riguarda il titolo, persino lo slogan pubblicitario del locale. «La fine di Pistoletto» è infatti il ribaltamento speculare della pubblicità del club, che appunto recita «Piper è la fine del mondo»9.
Delle suggestioni del tutto simili a quelle riscontrate nell’azione di Pistoletto si possono infine rintracciare anche nel resoconto, pubblicato su Flash Art nel dicembre 1967, della performance che Le Stelle di Mario Schifano, con la partecipazione di Gerard Malanga, realizzano per la prima volta proprio nel locale torinese. Uno spettacolo «globale» di suoni, luci e immagini che secondo Ugo Nespolo, autore dell’articolo, «concretizza […] un vero e proprio esplicito coinvolgimento del pubblico»10. Il discorso, mutatis mutandis, si potrebbe persino estendere alla Living sculpture (1966) di Marisa Merz, opera ambientale composta da strutture spiraliformi in lamina d’alluminio che, appese al soffitto o accatastate a terra, assumono conformazioni sempre diverse e imprevedibili. Un’indeterminatezza formale che, come evidenzia Tommaso Trini, risulta amplificata per «l’incidenza luminosa e la pressione tattile e la loro potenziale sonorità»11. Tutti aspetti che, evidentemente, si caricano di nuove e ulteriori sfumature all’interno del locale torinese dove il lavoro, nel dicembre 1967, pure venne esposto.
Già da questa prima, brevissima panoramica di carattere orientativo, si può intuire l’importanza di una puntuale analisi dei complessi e multiformi rapporti che la storia della club culture intrattiene con le arti visive. Un tema che, anche volendo limitare lo sguardo all’Italia, troverebbe nei numerosi locali aperti durante la seconda metà degli anni Sessanta sulla scia del Piper di Torino, altrettante possibilità di approfondimento. Quelli che Trini, in un celebre saggio pubblicato su Domusnel gennaio 1968, definiva Divertimentifici rappresentano infatti dei fondamentali spazi di mediazione fra discipline e istanze diverse che, all’interno di questi «contenitori», sembrano illuminarsi a vicenda12.