Pensare che esista il vuoto è come avere paura del buio: si tratta esclusivamente di fobia ansiosa. Il vuoto non è un fenomeno fisico ma una condizione mentale che la natura non prevede; esiste però una psicologia dello spazio connotata dalle scelte estetiche della modulazione che lo scandisce. Il lavoro di Stefano Mandracchia può definirsi in equilibrio tra l’idea di un sublime dinamico e un sublime matematico. Il suo interesse verso l’estetica pittorica del paesaggio contemporaneo sposta il punto d’attenzione al di sopra di un’ipotetica linea di base strutturale proiettandosi verso una geometria sensibile.
Paola Gallio: La complessa funzionalità delle strutture nell’architettura contemporanea sembra essere una delle basi di partenza del tuo lavoro; l’attenzione sembra però spostarsi più sull’estetica della sovrastruttura che sulla sua funzione, esiste un’intersezione tra le due cose?
Stefano Mandracchia: Sicuramente l’architettura mi attrae, con qualche eccezione però. Sostengo che alla base del lavoro di architetti come Daniel Libeskind o Zaha Hadid ci sia una specie di fraintendimento; il risultato finale è scenografia. Il paradosso è che in realtà ho cominciato ad apprezzare l’architettura grazie ai film italiani di genere degli anni Sessanta e Settanta. Ettore Sottsass sosteneva che la percezione dello spazio e del tempo è soprattutto sensoriale e che quindi realizzare un’architettura significa creare qualcosa che si riconosce soprattutto con i sensi. In effetti, in molti film di quegli anni la scenografia aveva un ruolo determinante nello sviluppo della storia. Penso a Suspiria, Psycho. Da qui è nato il mio interesse per l’architettura razionalista, l’art déco, il postmoderno, il Bauhaus, il gotico californiano e per architetti come Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier, Piero Portaluppi, Pier Luigi Nervi e Rem Koolhaas. Tuttavia io mi ritengo un pittore.
PG: La modulazione dello spazio riconduce tutto a un equilibrio; la ripetizione produce un linguaggio armonico che diventa basso continuo del tuo lavoro, qualcosa però crea un crash…
SM: Il riferimento a una geometria elementare, quasi primitiva, è una costante nella mia ricerca. Ho lavorato molto con le griglie per esempio. Anche in questo caso, la matrice architettonica era un pretesto per una ricerca di tipo principalmente pittorico. Lavori come Wall (2006) e Wow (2006) sono una sorta di ideale continuazione della ricerca sulla luce iniziata da Monet con la serie sulla cattedrale di Rouen, ritratta durante le diverse ore del giorno. Ho semplicemente cercato di attualizzare questo percorso, declinandolo a un’estetica architettonica più recente, dove strutture geometriche molto semplici, apparentemente neutre, diventano veicoli per un tipo di ricerca che si può definire romantica.
PG: Nel wall painting Oh no (2008), dilatando e ingrandendo le caratteristiche fisiche del font lo rendi nuovo motivo grafico, creando un inedito alfabeto. La matrice quindi è quella narcisistica della decorazione?
SM: Il fatto che i miei lavori possano essere in qualche modo esteticamente accessibili, o decorativi, è sicuramente voluto, in particolare nei più recenti. In % (2009), ho cercato di stabilire una relazione tra l’immagine fotografica di un fatto di cronaca nera e un impianto di tipo scultoreo molto estetizzato, quasi decorativo. Avevo in mente La battaglia di San Romano di Paolo Uccello e tutta l’estetica rinascimentale sull’arte della guerra. Pensavo che si sarebbe creato un forte contrasto tra la drammaticità della fotografia e la frivolezza della struttura, in realtà è scaturita una strana armonia tra i due elementi: l’alfabeto inedito a cui ti riferisci. Questo mi ha spinto a riflettere sul rapporto morboso e fondamentalmente complesso tra la società contemporanea e le immagini di questo tipo.
PG: Monumental/unmonumental. Nel tuo lavoro si può affermare l’identifi cazione e la coniugazione di entrambi?
SM: Probabilmente sì. In realtà lavoro un po’ come un tecnico degli effetti speciali: molti lavori nascono piccoli per poi diventare molto grandi e viceversa. Penso a Wall, dove una piccola griglia di cartoncino bianco alla fine assume le sembianze di un muro gigantesco. Oppure ai wall painting fatti con il nastro adesivo: si tratta di lavori particolarmente grandi ma realizzati con materiali deperibili, che li rendono assolutamente precari.