Ogni storia dell’arte, a qualsiasi latitudine e di qualsiasi tempo, nasconde narrazioni sommerse: un sistema di pensieri e estetiche che hanno viaggiato paralleli a quelli consolidati o si sono silenziosamente intrecciati ai più codificati linguaggi artistici. Mentre la loro condizione marginale rende conto di quanto la storia dell’arte si sia sempre fondata su più o meno consapevoli forme di inclusione
e esclusione, una loro riscoperta analitica spesso permette di illuminare percorsi critici nuovi e alternativi.
A osservare progetti come “sub”, per esempio, la collettiva presso il MACTE di Termoli a cura di Michele D’Aurizio, è evidente che anche dietro l’esperienza italiana del secondo Novecento si celi una “sotterraneità” preziosa, fatta di mescolanze, incontri e fusioni culturali capaci di smascherare le conseguenze di un’impostazione artistica eurocentrica.
La mostra raduna il lavoro di nove artisti e artiste internazionali che hanno raggiunto l’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta e, nella penisola, hanno aderito alle più audaci sperimentazioni artistiche locali pur senza rinunciare alla propria identità culturale o alle influenze estetiche delle proprie geografie di appartenenza. Anche quando vicine o apparentemente sovrapponibili alle sperimentazioni dell’Arte Povera o della Pittura Analitica, dell’Arte Concreta o dell’Informale, le ricerche di questi artisti sono ben più radicate nelle esperienze asiatiche o sudamericane e assumono la forma di codici verbo-visuali che raccontano di lunghe migrazioni, ideologie politiche radicali, profonde spiritualità e conoscenze vernacolari.
È questo il caso di Jorge Eduardo Eielson, l’artista visivo e poeta peruviano che a partire dagli anni Sessanta inizia ad annodare la tela dipinta fino a ottenere i Quipus e i Nudos: dei cordoli di tessuto aggrovigliato che hanno una presenza perlopiù scultorea. Se le intenzioni dietro alla nascita di questi lavori sono perfettamente in linea con quelle delle coeve decostruzioni della superficie pittorica operate da Burri e Fontana, l’atteggiamento e gli esiti perseguiti da Eielson sono ben diversi e piuttosto radicati nella tradizione della civiltà Inca, che usava il nodo come strumento di calcolo e registro mnemonico. Come sostiene Pierre Restany in uno scritto degli anni Novanta,1 con una semplice gestualità arcaica l’artista peruviano “può tradurre in inca i fondamenti della cultura occidentale e della sua arte”, in una modalità al limite dell’esistenzialismo che lo accomuna ad altri colleghi in mostra. Per esempio a Hidetoshi Nagasawa. Sia in Oro di Ofir (1971) che in Barca (1980-81) – due sculture simil-poveriste che rappresentano rispettivamente il calco in oro dell’interno delle mani dell’artista strette in un pugno e quello in marmo delle stesse mani congiunte a tenere una pianta di sophora japonica – l’artista da’ forma al Ma, un concetto della filosofia orientale che descrive ambiguamente quelle condizioni interstiziali, di passaggio o intervallo, spesso sospese nello spazio e nel tempo.
Così capaci di descrivere anche la sensazione del viaggio, queste opere sembrano raccontare la condizione di tutti gli artisti di “sub”, accomunati dall’avere lasciato il proprio paese d’origine per altre mete. Nel dattiloscritto Codice migratorio (1977), ad esempio, l’artista di origine turca Betty Danon rappresenta uno stormo di uccelli ottenuto grazie al ribaltamento e alla leggera sovrapposizione di coppie di parentesi; complice il titolo, però, il lavoro appare anche come una brillante metafora visiva della migrazione intrapresa dall’artista alla volta dell’Italia. Nei suoi dipinti monumentali, invece, Antonio Dias adotta un linguaggio astratto fatto di schizzi di colore che, incorniciati da griglie e abbinati a titoli come The Traveler (1970) o The Tripper (1971), sono in grado di evocare topografie più o meno concrete e, per estensione, richiamare la vita nomade intrapresa dall’artista in seguito alla sua fuga dalla dittatura militare brasiliana.
Più in generale, così radunati nello stesso spazio museale, i lavori di Eielson, Nagasawa, Danon e Dias – insieme ovviamente a quelli degli artisti Hsiao Chin, Tomàs Maldonado, Roberto Matta, Carmengloria Morales e Joaquìn Roca-Rey – sembrano incontrarsi perfettamente sotto il segno di un unico discorso corale sulla potenza dell’identità culturale che, per quanto lungamente relegato a una posizione
subalterna, può oggi incoraggiare nuovi percorsi di ricerca. Una prospettiva che diventa ancora più evidente al MACTE, dove una selezione di opere della collezione del Premio Termoli scelte per l’occasione circonda gli artisti di “sub” instaurando con essi una serie di rime formali, storico-artistiche e concettuali. Come a ricordare che la storia, anche quella dell’arte, è stratificata, e che vale sempre
la pena effettuare dei carotaggi sulle sue complesse narrazioni.