Damiano Gullì: Dai titoli delle tue opere, come Faith Matters o Very Hungry God, emerge in maniera evidente un forte senso religioso…
Subodh Gupta: Sono cresciuto in una famiglia religiosa ma non sono praticante, non vado al tempio. La religione però mi accompagna dall’infanzia, per cui è molto importante per me, è comunque sempre presente.
DG: Very Hungry God è un’opera dalla forte valenza iconica: una drammatica vanitas contemporanea, una riflessione sulla morte e sulla divinità. Come è nato questo lavoro?
SG: Sul nostro pianeta avvengono due tipi di disastri: quelli causati dall’uomo (come le guerre) e quelli naturali (lo tsunami, il terremoto di Haiti…). Lo tsunami è un esempio molto rappresentativo. È un avvenimento veramente terribile e quando si verifica noi siamo portati a pensare a Dio e al perché lo abbia fatto accadere. Nella realtà, quotidianamente, la gente è affamata, cerca cibo per sopravvivere e muore di fame. Per questo rappresento davvero un “Dio molto affamato”, con diverse accezioni.
DG: Il Guardian ti ha definito il “Marcel Duchamp indiano” e tu stesso hai presentato una reinterpretazione della Monna Lisa duchampiana L.H.O.O.Q. del 1919. Ti riconosci in questa definizione?
SG: Sono molto onorato di essere paragonato a Marcel Duchamp. È un buon padrino per chi fa arte. Io lo ammiro, guardo al suo lavoro, ma devo lavorare duramente per diventare come lui.
DG: C’è qualche artista in particolare che ti ha influenzato?
SG: Sono fortemente influenzato dall’arte contemporanea e dallo spirito del tempo in generale. Ho realizzato un’opera prendendo ispirazione da una di Jeff Koons. Ero in Francia, a casa di un noto collezionista, e mentre ammiravo la sua collezione, sono rimasto colpito da questo lavoro in acciaio e così ho realizzato il mio pezzo.
DG: Che ruolo rivestono invece la tradizione, la memoria?
SG: Per me la tradizione è molto importante. Io intendo però l’arte come un solo e unico linguaggio. Quando lo parli la gente ti può capire in ogni parte del mondo.
Scelgo soggetti che derivano dalla mia esperienza personale e dalla tradizione, ma cerco sempre di “tradurli” in questa lingua comune. Se guardi i lavori di artisti italiani, francesi o americani, riesci a vedere le loro differenti culture, a capire come le loro opere riflettano la loro società, anche se parlano un linguaggio universale. Questo è importante per ogni artista e anch’io cerco sempre di farlo. Poi a volte fai un buon lavoro, a volte meno.
DG: Ti confronti con differenti media: pittura, scultura, performance, video, installazione. Quale preferisci? Il tuo approccio cambia a seconda del mezzo?
SG: Le sculture e le installazioni sono il mezzo con cui preferisco esprimermi, che sento a me più vicino, ma allo stesso tempo non ho difficoltà a usarne altri. L’impiego di diversi media è come quando si viaggia lungo una strada e le condizioni atmosferiche cambiano (a volte nevica, a volte c’è il sole, a volte il cielo diventa nuvoloso). Nonostante i cambiamenti, comunque si sta percorrendo sempre la stessa strada! Io faccio allo stesso modo. Durante la giornata, qualsiasi cosa si faccia, con qualsiasi cosa si tenga occupata la tua mente, ci sono dei continui cambiamenti. E così, perché anch’io non posso cambiare mezzo per esprimere la mia arte?
DG: Moto, biciclette, bagagli, nastri trasportatori sono spesso presenti nei tuoi lavori. Che significato assume il viaggio per te?
SG: Migrazione, nomadismo… Io stesso viaggio molto. Questo mi aiuta a vedere il mondo in maniera differente. E cerco di trasferire tutti questi stimoli nelle mie opere.
DG: Le tue installazioni sono spesso caratterizzate dall’accumulo di scintillanti utensili domestici. Perché l’impiego di metalli è quasi una costante nei tuoi lavori?
SG: Questo è il modo in cui lavoro, il modo in cui guardo alle cose. Credo sia fondamentale per un artista creare un proprio linguaggio personale e riconoscibile. L’India è un paese grande e popolato. Praticamente la maggior parte della gente in India ha solo il cinema come forma di intrattenimento, è presente nella loro vita: la fa ridere, la fa piangere… Bollywood ha un ruolo centrale nell’immaginario collettivo popolare. Il cinema ha a che fare con le esagerazioni, è finzione. È questo che cerco di riflettere nel mio lavoro. Visto che non sempre si possono realizzare i sogni, allora qualche volta cerco di trasformarli in qualcosa di solido, stabile, usando il metallo, l’acciaio, il bronzo. Qualche opera ha bisogno di tradurre la realtà in un modo stabile, qualche altra invece non ne ha bisogno: può essere fragile, leggera. È la scultura stessa a richiederlo. Per questo alcuni miei lavori richiedono di essere in metallo mentre altri no.
DG: Hai una passione per il cinema e tu stesso hai recitato per alcuni anni. Raccontaci della tua mostra “There Is Always Cinema” alla Galleria Continua nel 2008.
SG: Nel 2001 ho partecipato alla mostra “Postproduction” organizzata dalla Galleria Continua. In seguito, abbiamo deciso di lavorare ancora insieme. Quando sono entrato nello spazio della galleria mi è sembrato di entrare in un mondo diverso. La sede è ricavata da un ex cinema degli anni Cinquanta. L’architettura e gli interni hanno richiamato alla mia mente quelli dei teatri indiani e sono stato molto sorpreso nel riscontrare questa analogia. Ho messo in dialogo le opere con la storia e la memoria del luogo. Questa mostra è stata molto importante per me. So bene che questo lavoro è stato fatto in Italia, a San Gimignano, ma è come se lo avessi fatto a casa mia.
DG: Continuando a parlare di cinema, pensi che un film come The Millionaire di Danny Boyle sia riuscito a rappresentare in maniera corretta la società indiana?
SG: L’ho trovato un film fantastico! Boyle ha fatto un ottimo lavoro, senza dubbio è uno dei film migliori del 2008 che io abbia visto. Sono stato molto toccato da questo film ma allo stesso tempo non bisogna dimenticare che si tratta di fiction, non rappresenta la realtà. Parte dalla realtà per fare qualcosa di diverso. E, perché no, è la stessa cosa che faccio anch’io. Uso dei lucenti utensili in acciaio, che in India sono molto comuni, sembrano molto costosi ma non lo sono. L’80% delle persone in India ne fa uso, ma la maggior parte di loro non ha necessariamente il cibo. Un buon esempio di questa “finzione” è l’opera che ho realizzato per il Pinchuk Art Centre di Kiev. Ci sono migliaia di utensili metallici da cucina, sono tutti oggetti molto lucenti ma vuoti, senza cibo. Quello che cercavo di esprimere è la contraddizione tra la “finzione” della lucentezza di questi utensili e la realtà.
DG: Cosa significa per te essere un artista indiano?
SG: Onestamente, dico sempre che per prima cosa sono un artista, poi sono indiano.
DG: Il riferimento al cibo è sempre presente nel tuo lavoro. Il saggio di Elio Grazioli, pubblicato nella tua monografia edita da Electa, in collaborazione con Sace e Galleria Continua, è intitolato Cibo per l’anima. Cos’è questo “cibo per l’anima”? A cosa si riferisce?
SG: Il tema del cibo è a me molto vicino. Io amo cucinare! Se non fossi un artista avrei potuto essere un cuoco. Il cibo è una cosa così reale e così pura. La fame può far cambiare i comportamenti delle persone in una frazione di secondo. Come i camaleonti cambiano colore, così il cibo può far cambiare le persone. C’è una grande poesia in tutto questo.
DG: Quali sono i tuoi progetti futuri?
SG: Dopo “Faith Matters”, la mia recente mostra al Pinchuk Art Centre di Kiev, in cui ho presentato nove dipinti e una serie di sculture in bronzo, avrò tre personali: a Seoul, in Scozia e a Delhi. E in tutte ci saranno nuovi lavori. Cerco sempre di presentare qualcosa di nuovo nelle mie mostre.