Mescolando una deliziosa riservatezza britannica a strascichi di accento americano, educatamente si scusa perché il lavoro non è ancora completamente installato — “Mi dispiace che tu non possa vederlo già acceso, ma se aspetti un paio d’ore, magari…”. E per un attimo sembra un’emergente al suo debutto, impaziente di mostrare al pubblico il risultato della propria fatica. Come se fosse la prima volta.
Quando incontro Susan Hiller, la chiesa sconsacrata di San Francesco a Como è ancora un cantiere a porte chiuse. Entrando mi rendo conto che PSI Girls — la videoinstallazione a cinque canali dell’artista londinese, pezzo forte della sua mostra personale — avrà qualcosa di estremamente suggestivo. Ma non è (solo) di questo che voglio parlare. Vorrei approfondire la pratica di un’artista che è stata guida di tanti altri, tra i più grandi. Che con lungimiranza ha sparigliato le carte di varie discipline umanistiche e non, per poi rimettere tutto al posto giusto, in un equilibrio tematico armonico e unitario. Lei — visting professor al XVII CSAV della Fondazione Ratti di Como —, rispolverando una pratica di gruppo ideata agli esordi della sua carriera, ha insegnato a venti giovani artisti internazionali cosa significa sognare.
Barbara Meneghel: Che cos’è un Dream Seminar, Susan?
Susan Hiller: Beh, sono sempre stata interessata ai sogni: mi hanno sempre colpita quegli stati intermedi tra ciò che la nostra società descrive come realtà — e quello che la realtà effettivamente è. In questo senso, mi rendo conto che la nostra società rende sempre più difficile alla gente interessarsi ai propri sogni, perché ormai si tende a essere considerati dei consumatori piuttosto che delle persone con una propria vita interiore. Un grosso problema per i giovani artisti è che hanno una conoscenza davvero scarsa di cose che io credo siano davvero interessanti per loro. C’era un tempo in cui gli artisti erano considerati esperti sognatori, e tutta la società era consapevole dell’esistenza di una relazione tra sogno e arte. Questo è quello di cui sto discutendo con i ragazzi al Corso.
BM: Quando parliamo dei sogni, del subconscio, del soprannaturale, del paranormale, ecc. — ci stiamo riferendo a quello che lei ha definito The Provisional Texture of Reality (il tessuto provvisorio della realtà), ossia una dimensione parallela che sta accanto, oltre la vita quotidiana. Mi chiedevo se si potesse considerare la religione, in senso generale, come parte di queste esperienze.
SH: Sì, certamente! Ed è per questo che trovo molto interessante allestire il mio lavoro in una chiesa sconsacrata. In realtà non sono completamente d’accordo con te quando dici che queste esperienze si collocano al di fuori della vita di tutti i giorni. Di fatto il fulcro del mio lavoro, e l’influenza che esso ha avuto su artisti più giovani, consiste proprio nel mio interesse verso cose che sono piuttosto ordinarie, ma che le persone non vedono, o a cui non fanno caso. Credo sia proprio questo il compito dell’artista nella società occidentale: trovare forme di rappresentazione per cose che ci appartengono, ma a cui non prestiamo attenzione. E ciò che mi affascina in particolare nel lavoro in mostra è esattamente quello che hai detto: il rapporto con la religione. Un senso del miracoloso sta ritornando, ma in forme diverse, popolari — i film, la televisione, la musica. Mi interessa proprio questo, questo tipo di connessione.
BM: Mi viene in mente la figura dello sciamano…
SH: Non saprei, in realtà non parlo di questo.
BM: Non ne parla? Ne è sicura? In realtà potrebbe essere quel qualcuno che connette le due dimensioni, quella della vita quotidiana e quella oltrenaturale…
SH: Sì, senza dubbio lo è, ma penso che per noi occidentali sia pericoloso utilizzare queste parole, perché non hanno niente a che vedere con noi: non sperimentiamo lo Sciamanesimo direttamente, è solo filtrato dal mito. Allo stesso modo è problematico parlare, per esempio, di percezione extrasensoriale. È come se mettessimo tutto in una scatola ideale, in cui infiliamo ciò che è extra-ordinario. Invece è ordinario, è parte della nostra vita. Ma lo sciamanesimo non ha nulla a che fare con la religione dell’Europa occidentale. Sai, da tempo porto avanti una serie di Homages ad artisti moderni, tra cui Marcel Duchamp, Yves Klein, Gertrude Stein. Tra questi, cito Joseph Beuys per rispondere alla tua domanda: si dice che il suo lavoro fosse sciamanico, e che avesse avuto un’esperienza con lo Sciamanesimo. Ho voluto mostrare che le sue azioni sono ancora presenti nella cultura popolare, quindi ho realizzato un lavoro collezionando ampolle di acqua santa raccolte nei luoghi di culto alla Madonna, cercando di dimostrare che o si crede o non si crede.
BM: L’acqua è solo un simbolo, forse.
SH: Esatto. È un simbolo della possibilità del miracolo. Quindi, è questo il genere di religione con cui mi confronto. Non mi sto occupando dello Sciamanesimo in senso stretto, direi.
BM: Passando al suo lavoro in generale, una sua caratteristica mi sembra essere la relazione tra la natura dei contenuti da un lato, e il metodo scelto per trattarli dall’altro. Voglio dire, lei si occupa di una serie di aree irrazionali delle esperienze culturali come il subconscio, il soprannaturale, il mistico, con un approccio fondamentalmente razionale e logico che è quello della collezione, della tassonomia, dell’archivio.
SH: No, non direi razionale, direi piuttosto scettico.
BM: Ma parlando di raccolta, di archivio, di organizzazione mi sembra si rimandi a un approccio di carattere più scientifico.
SH: No. Il riferimento è a quel tipo di approccio, ma se si guarda bene al mio lavoro non è affatto così. Per esempio nel lavoro sul Freud Museum (The Curiosities of Sigmund Freud, 2005) ci sono moltissime contraddizioni e giochi ironici. Non è scientifico, anzi è quasi anti-scientifico.
BM: Nemmeno nel punto di partenza?
SH: No, non direi. È vero che in quel lavoro in particolare utilizzo queste scatole in cui mettere tutto, e le scatole sono quel tipo di strumento che usano gli archeologi; mi è stato chiesto di fare una scelta legata al contesto, e io stavo pensando al fatto che scendere nell’inconscio è come scendere in uno scavo archeologico e portare alla luce solo dei frammenti, da cui poi si costruisce da soli una narrazione, ci si crea il proprio racconto. Penso sia questa la base di quel lavoro. Tenta costantemente di porsi come uno specchio, un luogo in cui si possa creare se stessi e la propria narrazione: in questo senso direi che è completamente anti-scientifico.
BM: L’immagine dello scavo nell’inconscio rimanda appunto alla psicanalisi. Penso che possa essere considerata uno degli aspetti più importanti del tuo lavoro: anche se non citata esplicitamente, in alcuni aspetti della sua ricerca sembra funzionare come una sorta di base metodologica.
SH: Mi sembra molto interessante quello che dici. Non sono sicura che sia vero, ma mi fa molto piacere che tu l’abbia detto. Mi affascina la profondità delle persone, credo che dobbiamo tutti riavvicinarci a quello che siamo, nel senso dell’interiorità.
BM: Sì, è per questo che pensavo alla psicanalisi, anche se non necessariamente in senso strettamente scientifico.
SH: Esatto. Personalmente credo di essere interessata solo all’interiorità degli artisti.
Dopo una lunga chiacchierata sulle differenze tra Londra e gli Stati Uniti, Susan rientra di colpo nel cuore del discorso, per precisare di nuovo l’ampiezza di respiro della sua ricerca.
SH: C’è un’ultima cosa che vorrei dire, puoi riaccendere il registratore? La mia ricerca non è sempre legata all’analisi dell’occulto. Voglio dire, ho fatto molti lavori in cui il soggetto non è questo. PSI Girls si occupa in maniera molto diretta di queste cose, ma penso che in realtà tratti anche dei media, della natura della cultura di massa, della musica popolare. Quindi, se mi chiedi quale sia il focus della mia ricerca, non direi di occuparmi del soprannaturale, ma piuttosto delle rappresentazioni del soprannaturale, da cui tutti oggi siamo sommersi. E infatti Buffy L’Ammazzavampiri è sempre stata uno dei miei personaggi preferiti.