“Alleys of a City Named Jogya” è una collettiva di artisti che provengono dall’isola di Giava, ovvero da uno dei luoghi più abitati sulla Terra (l’Indonesia è il quarto paese più popolato al mondo) e da una delle economie più forti del Sud-est asiatico. La simmetria fra emergenza dell’arte e crescita economica è un modello storicamente affidabile per dare ragione dell’esistenza di movimenti e artisti in un determinato tempo e luogo (in questo caso la sola città di Jogya che è il centro culturale più importante dell’Indonesia), ma è anche un punto di riferimento astratto che, come è accaduto con l’arte cinese vent’anni fa, ci fa correre il rischio di scambiare l’impressionante vitalità di una cultura nel suo insieme con l’inevitabile posizionamento di essa nella sfera del mercato dell’arte. Parallelamente, l’uso della lingua comune dell’arte contemporanea che gli artisti di Jogya parlano in apparenza senza inflessioni dialettali (a parte quelle che ingenuamente potremmo definire “orientaliste”), potrebbe spingerci a pensare che le opere in mostra presso Primo Marella Gallery siano soltanto effetti collaterali o persino sottoprodotti della globalizzazione. Tuttavia, semplificazione e sottovalutazione sono solo retaggi del calcificato occidentalismo dell’Occidente, soprattutto nei confronti dell’ultima generazione di arte che proviene dall’Oriente e alla quale, quando non è oggetto di speculazione, non viene quasi mai riconosciuta la profonda sintonia con la globalizzata contemporaneità nella quale viviamo. Nel caso degli artisti di Jogya, questo tropismo oscilla dall’assetata ambizione di Uji “Hahan” Handoko (uno street artist che trasferisce il graffito o il fumetto su pannelli di differenti materiali e ricorda vagamente Barry McGee), alla rielaborazione dell’infanzia da parte di A.C. Andre Tanama attraverso l’universo visivo dei manga — una forma d’arte originalmente asiatica nella quale non intervengono le censure e autocensure sull’argomento tipiche dell’Occidente. Dallo sforzo autobiografico di Oky Rey Montha — che nel descrivere una delle poche cose localizzate nel globo, cioè la violenza nei confronti dell’individuo, in questo caso lui stesso, va a toccare un più generico senso di orrore, spaesamento, solitudine —, alla mitologia/archeologia murale di Eko Nugroho che, con la sua pittura precisa, intensa e vibrante è, per così dire, il “genio della specie” del gruppo: i suoi ironici murali a sfondo sociale sono straordinari ma altrettanto si può dire dei suoi disegni, delle sculture e delle opere realizzate con altri media come il ricamo. Un discorso a parte va fatto per Farhansiki, uno street artist che è difficile definire un grande pittore ma che forse è l’artista più promettente fra quelli in mostra. Le sue rappresentazioni in stencil della fibrillante movimentazione della contemporaneità, con il suo impatto caotico ma via via tendente all’ordine, sono forse le opere più originali e interessanti fra quelle esposte.
15 Ottobre 2015, 11:51 am CET
The Alleys of a City Named Jogya di Nicola Danè
di Nicola Danè 15 Ottobre 2015Primo Marella Gallery, Milano.
In mostra: Farhansiki, Uji “Hahan” Handoko, Eko Nugroho, A.C. Andre Tanama, Iwan Effendi, Eddie Prabandono, Oky Rey Montha, Janu Satmoko, Eko Didyk Sukowati, Riono Tanggu, S. Teddy Darmawan.
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