Tutto ciò che è “troppo”: l’eccesso, il miscuglio del sublime e dell’ironico, la compiaciuta appariscenza, il kitsch più sfacciato. Ma anche la messa a nudo di ogni stravaganza, lo svelamento di ogni artificio, con l’invito al pubblico a divenire complice, a entrare nel gioco, a mescolarsi alla festa. È, questa, la piattaforma da cui hanno preso avvio i vari spettacoli proposti quest’estate dalla Galleria Civica di Trento: vere performance che hanno abbandonato ogni messaggio provocatorio, ogni sovversione, ogni esaustione del corpo, per darsi senza vera drammatizzazione, senza vero completamento, pur lasciando intendere che tutto può essere completato (condiviso) in ogni momento. Lo possono essere i disegni di Paul McCarthy e Benjamin Weissman che uniscono parole e immagini attraverso un esacerbato groviglio di gesti, un’immensa copulazione di anatomie, una proliferazione cancerosa e metamorfica di elementi umani e animaleschi; come lo possono essere le grafiche colorate con cui gli AVAF (Assum Vivid Astro Focus) tappezzano il piano inferiore, in modo da creare un’atmosfera festosa e stordente, simile a quella di una discoteca. I disegni di McCarthy sono script, sceneggiature per future performance che esploreranno “ossessioni personali” e manie consumistiche americane, mentre lo spazio creato dagli AVAF determina direttamente ciò che avviene in esso, calando il pubblico in un universo parallelo fatto di musica, teatro e piacere del travestimento. Con il collettivo di artisti My Barbarian ci si trova addirittura immessi in un autentico workshop, che rielabora istrionicamente alcuni esperimenti teatrali degli anni Sessanta e che si conclude con un recital pubblico, dove vengono cantati brani che si rifanno a mitologie del passato e del presente d’Italia. Ma, si sa, non esiste un luogo specifico per le performance: la loro funzione è atopica. Al limite possono essere eseguite dappertutto, portando con sè il puro piacere collegato a una sorta di deviazione e di incongruità. Ed è quello che avviene con l’esibizione di John Bock che mette in piedi una sorta di “teatro delle marionette” in mezzo ai passeggeri della cabina di una funivia: egli gioca a fare lo scienziato pazzo con alambicchi, intrugli, spruzzi di liquidi, con l’aggiunta di due autoritratti in legno che funzionano da ombre o da fantocci, per accentuare gli effetti di straniamento e di eccentricità performativa. E un simile atto trasgressivo lo compie anche Marinella Senatore, girando per le valli con un furgoncino e inventandosi dei provini tipici dei reality show: proiettate su un telone le riprese mescolano esibizionismo e curiosità, “casting popolari” e sguardi furtivi, confondendo il cinematografico con il vissuto, il mediale con il reale. Carlos Amorales spinge ancora di più l’accelleratore del perturbamento delle logiche abituali, inscenando un’antisfilata di moda, dove è la gente che passa abitualmente per la strada ad essere osservata da modelli vestiti con abiti dalle parvenze di animali favolosi. E poi ancora show di Olaf Breuning, Michael Fliri, Jonathan Meese…
La Galleria ha proposto davvero per un’estate una sorta di “teatro di massa”: si è spinta aldilà dei propri ambiti, statuti, spazi, per aprirsi alle più diverse espressività (messinscena, danza, canto, disegno, cinema), ma soprattutto per portare sempre più l’arte verso la vita, per passare da un “enunciato” unico a uno reciproco, in relazione intima con gli altri.
Tutto ciò che è “troppo”: l’eccesso, il miscuglio del sublime e dell’ironico, la compiaciuta appariscenza, il kitsch più sfacciato. Ma anche la messa a nudo di ogni stravaganza, lo svelamento di ogni artificio, con l’invito al pubblico a divenire complice, a entrare nel gioco, a mescolarsi alla festa. È, questa, la piattaforma da cui hanno preso avvio i vari spettacoli proposti quest’estate dalla Galleria Civica di Trento: vere performance che hanno abbandonato ogni messaggio provocatorio, ogni sovversione, ogni esaustione del corpo, per darsi senza vera drammatizzazione, senza vero completamento, pur lasciando intendere che tutto può essere completato (condiviso) in ogni momento. Lo possono essere i disegni di Paul McCarthy e Benjamin Weissman che uniscono parole e immagini attraverso un esacerbato groviglio di gesti, un’immensa copulazione di anatomie, una proliferazione cancerosa e metamorfica di elementi umani e animaleschi; come lo possono essere le grafiche colorate con cui gli AVAF (Assum Vivid Astro Focus) tappezzano il piano inferiore, in modo da creare un’atmosfera festosa e stordente, simile a quella di una discoteca. I disegni di McCarthy sono script, sceneggiature per future performance che esploreranno “ossessioni personali” e manie consumistiche americane, mentre lo spazio creato dagli AVAF determina direttamente ciò che avviene in esso, calando il pubblico in un universo parallelo fatto di musica, teatro e piacere del travestimento. Con il collettivo di artisti My Barbarian ci si trova addirittura immessi in un autentico workshop, che rielabora istrionicamente alcuni esperimenti teatrali degli anni Sessanta e che si conclude con un recital pubblico, dove vengono cantati brani che si rifanno a mitologie del passato e del presente d’Italia. Ma, si sa, non esiste un luogo specifico per le performance: la loro funzione è atopica. Al limite possono essere eseguite dappertutto, portando con sè il puro piacere collegato a una sorta di deviazione e di incongruità. Ed è quello che avviene con l’esibizione di John Bock che mette in piedi una sorta di “teatro delle marionette” in mezzo ai passeggeri della cabina di una funivia: egli gioca a fare lo scienziato pazzo con alambicchi, intrugli, spruzzi di liquidi, con l’aggiunta di due autoritratti in legno che funzionano da ombre o da fantocci, per accentuare gli effetti di straniamento e di eccentricità performativa. E un simile atto trasgressivo lo compie anche Marinella Senatore, girando per le valli con un furgoncino e inventandosi dei provini tipici dei reality show: proiettate su un telone le riprese mescolano esibizionismo e curiosità, “casting popolari” e sguardi furtivi, confondendo il cinematografico con il vissuto, il mediale con il reale. Carlos Amorales spinge ancora di più l’accelleratore del perturbamento delle logiche abituali, inscenando un’antisfilata di moda, dove è la gente che passa abitualmente per la strada ad essere osservata da modelli vestiti con abiti dalle parvenze di animali favolosi. E poi ancora show di Olaf Breuning, Michael Fliri, Jonathan Meese…
La Galleria ha proposto davvero per un’estate una sorta di “teatro di massa”: si è spinta aldilà dei propri ambiti, statuti, spazi, per aprirsi alle più diverse espressività (messinscena, danza, canto, disegno, cinema), ma soprattutto per portare sempre più l’arte verso la vita, per passare da un “enunciato” unico a uno reciproco, in relazione intima con gli altri.