Una cena con Thomas Schütte è sempre un evento impegnativo e curioso. Conversatore perentorio, egli ama contraddire chiunque, ed eventualmente anche contraddirsi. Indipendentemente dalla vostra tesi e dell’argomento scelto l’artista tedesco troverà sempre interessante entrare in collisione con quanto state dicendo, anche a costo di arrivare a sostenere — consapevolmente — qualcosa di insostenibile. Non si tratta di un semplice gusto per la provocazione, quanto piuttosto di una sua naturale tendenza a sentirsi “differente” e quindi, istintivamente, in opposizione con qualsiasi cosa voi stiate dicendo. Racconto questo non perché io ami particolarmente gli aneddoti ma perché questa sua “tensione” sembra essere il vero motore non solo del suo comportamento quotidiano ma anche — ineluttabilmente — della sua attività creativa. In questo senso, si potrebbe affermare che l’opera di Schütte sia il frutto della messa in discussione costante dei risultati ottenuti, una diretta conseguenza della sua volontà di non ripetersi, di partire ogni volta da una sorta di grado zero.La scultura rappresenta il luogo paradigmatico di questa sua “inventività a sorpresa”, di questa straordinaria ricchezza immaginativa. Si consideri quale distanza divida le prime sculture figurative, piccole sagome che l’artista colloca nei modelli architettonici per indicarne la scala, dalla consapevolezza strutturale e plastica delle opere prodotte negli ultimi quindici anni. Come è stato possibile tale passaggio? In che modo Schütte passa dal collocare nei suoi modelli dei semplici giocattoli di Guerre Stellari, al realizzare delle sculture in bronzo alte quattro metri? Seguendo quale tipo di riflessione l’artista passa da un approccio quasi dilettantesco e scettico nei confronti della scultura a un dialogo serrato, come avviene nel caso della serie “Frauen”, con la tradizione plastica europea dei primi del Novecento?
Questa storia comincia in effetti con un paradosso: Schütte inizia a dedicarsi alla scultura negandola. La piccola figura Mann im Matsch del 1982, che costituisce il suo esordio da scultore, può essere considerata in effetti come una sorta di monumento all’impossibilità della scultura. Si tratta di una piccola figura in cera realizzata per un modello architettonico che, secondo il racconto dell’artista stesso, non potendo stare in piedi da sola è stata fusa sul suo supporto fino al livello delle ginocchia. Questa figurina, bloccata nella sua stessa materia e incapace di procedere, diventa per Schütte una sorta di allegoria della sua stessa pratica scultorea, e più in generale del fallimento del Modernismo, con la sua utopia fondata su un’idea di progresso continuo della storia. Una situazione di stallo, storica e personale, all’interno della quale si giustifica, allegoricamente, anche l’errore, così come l’idea della scultura come pratica dilettantesca, come luogo dell’esperimento e del bricolage. Si guardino per esempio i due busti Mann und Frau (1986) di legno e gesso, oppure la scultura in polistirolo dedicata ad Alain Colas (1989), modellati in modo molto sommario e grezzo, quasi dei non-finiti. L’artista assume quindi su di sé il problema dell’impossibilità della scultura figurativa e il senso di stallo della cultura modernista, cercando di risolverlo attraverso un fare originale e libero, sia dal punto di vista della tecnica che del materiale utilizzato, in modo da evadere ogni tentazione accademica. Così nel corso di due decenni, egli passa dalla scultura come ipotesi, come modello, come pratica del bricolage, a un linguaggio plastico che si fa erede della grande tradizione della scultura occidentale pre-moderna, prefigurandone un possibile futuro.
Questo percorso, che appare sbalorditivo considerata la radicalità delle premesse, non si sviluppa solo secondo dinamiche strettamente formali. Alla base del suo viaggio radicale nella storia dell’arte, nella scultura, nella pittura e nell’architettura, c’è sempre infatti la necessità di raggiungere qualcosa di necessario ed essenziale, non solo dal punto di vista del linguaggio ma nella direzione di qualcosa di più intimamente umano. L’intensità della sua opera, che prende in considerazione i grandi temi dell’esistenza, come l’amore, la paura, l’autorità, l’alienazione, la solitudine e la morte, non ha uguali tra gli artisti della sua generazione. È come se, attraverso il suo lavoro, Schütte sia impegnato a demistificare il reale stesso, scarnificandolo dalle scorie del quotidiano, per andare a parlare — spesso attraverso delle parodie — dell’essere umano universale e del suo rapporto con il presente e con la storia. Nel parlare dell’uomo, e — come vedremo tra poco — della donna, Schütte parla ovviamente anche di se stesso, arrivando a toccare corde profonde dei sentimenti e della psiche umana. In tal senso, tutta la sua opera può essere vista anche come un poderoso meccanismo di autoanalisi, di comprensione e di svelamento del sé.
Una funzione metanarrativa e autobiografica assume buona parte della sua ricerca plastica negli anni Ottanta, come per esempio in Laufbahn (1986-1987), opera in sette atti nella quale Schütte mette in scena tutta la carriera dell’artista, dalla nascita alla morte. La narrazione è condotta grazie a diversi tipi di piccole sculture, dalle sagome in compensato utilizzate in precedenza per animare le sue architetture, alle figure con la testa in pasta Fimo (il nostro Pongo), modellate a mano e collocate su piccoli tripodi. Proprio in Mohr’s Life: The Collectors, appare per la prima volta una figurina modellata in resine sintetiche che sarà successivamente utilizzata come modello per la realizzazione delle serie “Kleine Geister” e nei “Große Geister” in alluminio.
All’inizio degli anni Novanta Schütte avvia una produzione plastica più impegnativa dal punto di vista delle dimensioni delle opere. Un’inedita tentazione di monumentalità si accompagna a una coerente e costante volontà di sperimentare nuovi materiali. Le prime ceramiche come Obst und Gemüse e Schwarzen Zitronen, rappresentano i presupposti per la realizzazione di Fremden (1992), il primo gruppo a grandezza naturale che l’artista tedesco realizza in occasione di Documenta IX. Durante questo decennio, con una sicurezza sempre maggiore nel manipolare materiali e tecniche, Schütte arriva a produrre uno straordinario complesso di opere, tra cui i diversi esemplari di “Kleine Geister” e dei “Große Geister”, figure dalle sembianze umane che sviluppa da alcune forme già presenti in Laufbahn e Mohr’s Life. La serie “Kleine Geister” nasce in occasione di una collaborazione dell’artista tedesco con Richard Deacon, per una mostra a due dal titolo “Them and Us” presso la Lisson Gallery a Londra nel 1995. Dai piccoli modelli, secondo una pratica da quel momento ricorrente nel suo lavoro, l’artista trarrà i “Große Geister”. Questi ultimi, lucenti, plastici e monumentali, rappresentano un episodio straordinariamente singolare non solo nell’ambito della storia della scultura, ma anche nel contesto del suo lavoro. Si tratta di un gruppo di lavori che — a differenza di quanto accadeva negli anni Ottanta — tende a porsi come pura apparizione, aldilà di ogni giustificazione storica, nella prospettiva di un a-storicismo stilistico. Sono forme che sembrano materializzarsi sulla terra dallo spazio, personaggi che riflettono un’assoluta alterità rispetto al mondo.
La serie “Frauen” si inserisce al contrario in una tradizione plastica secolare. Esse incarnano ancora una volta un paradigma plastico completamente nuovo nell’ambito dell’opera dell’artista. Le “Frauen” in bronzo o alluminio derivano direttamente da alcuni modelli in ceramica scelti tra 120 diversi bozzetti realizzati tra il 1997 ed il 1999. Le donne, appena abbozzate con gesti rapidi su una base di ceramica rettangolare standard relativamente spessa, si torcono su loro stesse fino a sembrare annodate, si distendono sulla base rannicchiandosi, si ergono inginocchiate con il busto, accavallano le gambe, oppure finiscono schiacciate con violenza, come da un rullo, sul loro stesso supporto. Lavorando metodicamente ogni giorno su cinque pezzi diversi, Schütte è alla ricerca della forma che può ritenere “corretta”. Una volta soddisfatto del modello, l’artista lo vernicia con dello smalto, e il colore finisce per donare al bozzetto una nuova vita, una notevole qualità tattile e cromatica. Le soluzioni giudicate meno interessanti vengono schiacciate con un martello o un pezzo di legno, ma entrano comunque a far parte della serie; anche i fallimenti possono essere interessanti dal punto di vista formale. Schütte non realizza 120 bozzetti in ceramica alla ricerca di una forma definitiva, emblematica e perentoria: piuttosto è interessato a guardare come la materia possa trasformarsi davanti ai suoi occhi raggiungendo un risultato formale interessante. Si tratta di variazioni sul tema condotte direttamente sulla materia, molto rapidamente e con una certa leggerezza esecutiva. L’obiettivo è raggiungere un insieme di possibilità, di variazioni, di forme, che potrebbero essere poi sviluppate in un secondo momento. L’idea di costituire un repertorio e di lasciare il lavoro fondamentalmente aperto, caratterizza strutturalmente — come abbiamo visto — tutto il suo lavoro.
Il metodo di lavoro dei bozzetti, rapido, inventivo e leggero, cambia radicalmente nell’esecuzione delle “Frauen” gemelle in bronzo e acciaio. Realizzate, come già scritto, a partire dal bozzetto in ceramica, le grandi “Frauen” richiedono altri tempi esecutivi, dai sei agli otto mesi di lavoro. L’artista inizia con il determinare la scala e quindi le dimensioni della scultura: in seguito viene realizzata una replica in polistirene che viene ricoperta con iuta e un gesso. Una volta ottenuto lo stampo si procede con la fusione, in bronzo o alluminio , e a quel punto inizia un faticoso lavoro di rettifica e di lucidatura. La realizzazione di queste opere così come dei “Große Geister” richiede del personale con un’alta specializzazione tecnica associata a strategia e logistica e anche a un piano finanziario preciso. Si tratta, in breve, di capacità che l’artista ha acquisito con il tempo e che ora gli consentono di percorrere nuovi filoni di ricerca. Precisi problemi di natura tecnica determinano la forma grossolana, spesso fumettistica, dei piedi e delle mani delle “Frauen”, ma anche la presenza o meno della testa o degli arti. Fin da Mann im Matsch (1982-1983), i problemi tecnici e la natura del materiale hanno una parte importante nella definizione della sua opera. Come accade in diversi altri gruppi di lavori, in questa serie di sculture è possibile rintracciare un compendio di differenti stili. L’artista stesso ha parlato esplicitamente di un suo interesse per l’opera di Aristide Maillol (1861-1944), come per quella di Henri Matisse e Pablo Picasso. In particolare, le analogie delle “Frauen” con alcune delle sculture di Maillol sono molteplici: si guardi per esempio alla postura delle donne, ma anche al modo spesso sensuale di trattare gli incarnati, la schiena e la testa. Schütte guarda quindi al passato, soprattutto per affrontare e risolvere precise questioni tecniche, ma è tuttavia in grado di assorbire suggestioni e soluzioni formali, anche molto diverse tra loro, in una formulazione tutta personale, autonoma e profondamente articolata. Attraverso questa serie di opere Schütte, caso piuttosto raro tra gli artisti del secondo Novecento, sembra volersi riappropriare di un’idea di scultura come regia: le sue opere, nelle loro varianti, intendono far presa sullo spettatore, legarlo all’immediatezza stessa della loro improvvisa progettazione plastica. La sua è una scultura emozionante più che emozionata, come nel caso di tanta scultura figurativa di fine Ottocento e dei primi del Novecento: Schütte cerca la forza di una presenza fisica nello spazio, l’espressione di un’energia tettonica. Egli è attratto dalle possibilità della materia di esprimere emozioni profonde: il modello di partenza, oggetto passivo nello spazio esistenziale, deve trasformarsi — nella monumentalità — in un elemento coordinatore e condizionante dal punto di vista spaziale. L’artista realizza le “Frauen”, anche uno stesso modello, con materiali diversi, a studiare differenti effetti di mobilità percettiva. L’alluminio, specchiante e alieno, è alternato al bronzo, a una materia ferrosa, ruvidamente corrosiva, aspra e violenta.
Ciò che emerge con forza da questo gruppo di opere è la capacità di Schütte di operare una notevole rivoluzione formale e immaginativa, non solo rispetto alla scultura del passato ma nell’ambito del suo stesso gruppo di opere. Si guardi al modo nel quale l’artista passa da un’allusione a un classicismo sensuale e trepidante, che ricorda appunto Maillol, nelle Frauen n.5, n.7 e n.9, a un arcaismo quasi acerbo e contrastato della Frauen n.16, una donna che diventa roccia, profilo di montagna. La varietà degli atteggiamenti è notevole. Alcune Frauen giacciono al suolo schiacciate da una forza arbitraria e cieca, che sia quella della storia o dell’uomo, penso alle n.4 e n.8, altre invece si ergono orgogliose e affascinanti, con modi più classici, come le Frauen n.10, n.12 e n.17, altre ancora sono ridotte a busti e corpi senza arti come la Frauen n.9 e la n.7. Nella Bronzefrau n.6 l’artista sembra servirsi di una compenetrazione volumetrica di tradizione futurista e boccioniana: la linea diventa forza centrifuga e centripeta che plasma la materia. Questa scultura, come anche la n.11, sembra venire fuori da un film di fantascienza: fa pensare a uno strano animale metamorfico, a una potenza ctonia impegnata ad assumere la struttura ossea di un extraterrestre. Siamo di fronte al configurarsi di un’antropologia che dà per assunta la congiunzione cosmica, l’unione con l’alieno. Forse per questa ragione, come accade per i “Große Geister”, anche le “Frauen” sembrano in fondo vivere in una sorta di tempo mitico, storicamente non individuabile. Si guardi per esempio al rifiuto istintivo di ogni tentazione ritrattistica, a favore della elaborazione di una forma autonoma e mentale, un raffinato arabesco spaziale di ampia articolazione e senza precedenti nella scultura del secondo Novecento.
Tra il 2011 ed il 2012, l’artista realizza, gli “United Enemies” in bronzo. Si tratta di due sculture alte quattro metri, versioni ingigantite dei piccoli “United Enemies” ai quali l’artista ebbe modo di lavorare durante una residenza a Roma, circa venti anni fa. Ispirati alla statuaria romana antica e in qualche modo anche al clima politico italiano di allora, i quattro visi di queste due sculture hanno forme brutali e violente. Furono modellati direttamente dall’artista nella cera, e ricordano la fisiognomica deformata delle caricature di Honoré Daumier. Schutte continua quindi a tornare sulle sue opere, come se queste non avessero detto, nel momento in cui furono create, tutto quello che avrebbero potuto dire. Si tratta di forme polisemiche, aperte e in dialogo tra loro, suscettibili di trasformazioni radicali. Per questa ragione nel 1990, in una conversazione con Martin Hentschel, l’artista postula l’esistenza della propria opera in termini di modelli e proposte. Le sculture degli anni Ottanta, che svolgevano sostanzialmente una funzione micro-narrativa e teatrale, vengono ingrandite e isolate su scala monumentale. Il passaggio dal micro al macro, il tornare indietro su forme e intuizioni del passato, è possibile all’interno di una pratica artistica che matura nel suo farsi. Lo studio dell’artista, il luogo che egli definisce morale, è una sorta di bottega rinascimentale: esperimenti, analisi dei problemi, pratica dell’errore e soprattutto lo sviluppo di una conoscenza tecnologica appropriata ricoprono un’importanza ormai fondamentale nella realizzazione dell’opera.
All’interno di questo laboratorio progettuale la scultura di Thomas Schütte rimane fondamentalmente aperta, suscettibile di inediti sviluppi. Siamo di fronte a una straordinaria avventura creativa che assume il senso di un’indagine profonda sui sentimenti umani e sul rapporto dell’uomo con se stesso, con il potere e con la con storia. Se questo è un tempo tragico, Thomas Schütte è il suo poeta.