Anche quando ciò che noi vediamo ci sembra lapalissiano, in realtà potrebbe celare un enigma. “Non posso raccontarvi tutto”, diceva Gustave Courbet, “perché se i quadri si potessero spiegare e tradurli in parole, non ci sarebbe bisogno di dipingerli”. Ineffabili e ingannevoli sono anche i quadri più recenti di Tino Stefanoni (Lecco, 1937), i quali possono essere compresi in base alla cronologia degli eventi. Andando a ritroso nel tempo scopriamo che in età scolare Stefanoni aveva appreso i rudimenti dell’arte in un liceo che porta il nome di Beato Angelico. È allora che l’artista individua nel frate domenicano il grande iniziatore di quella pittura metafisica che – passando per Piero della Francesca – sarà appannaggio di de Chirico e Carrà, l’ultimo dei quali ispira i primi paesaggi di Stefanoni. Si tratta di scorci naturalistici, in ossequio alla pittura lombarda in voga a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma come giustamente ha tenuto a precisare Valerio Dehò, quella di Stefanoni è una metafisica senza mitologia che non vuole “aprire le porte all’ignoto o dell’inconoscibile” [comunicato stampa della mostra “L’enigma dell’ovvio”, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Milano, 2014].
Nella seconda metà degli anni Sessanta il paesaggio viene miniaturizzato e incapsulato in piccoli rilievi semisferici che lo riverberano tutt’intorno. Nascono così i Riflessi (1965-68), opere che segnano il suo esordio nel sistema dell’arte. È a questo punto che Stefanoni avverte l’urgenza di costruirsi un lessico personale e allo stesso tempo universale. Inizia quindi a sviluppare un abbecedario di forme sinottiche che hanno un duplice intento: ridurre e replicare “modelli” desunti dal quotidiano. Nel tentativo di banalizzare ciò che di per sé è già banale, Stefanoni realizza delle Tavole (1968-75) in cui i soggetti diventano verità manifeste, semplici, perspicaci, come in un manuale d’istruzioni. Sono immagini didattiche stampate a pressione, procedimento che l’artista riproporrà nella sezione sperimentale della Biennale di Venezia del 1970, impegnandosi nella produzione di una tiratura illimitata che viene interrotta al termine dell’esposizione. Una diretta emanazione di questo ciclo di lavori si ritrova nelle Piastre del 1971, concepite come guida per la ricerca delle cose: sette soggetti ripetuti dieci volte e ricavati da lastre in ferro tranciate manualmente. Lo stesso “esercizio didattico” viene applicato alle successive Tavole che l’artista dipinge su tele grezze. In questa fase l’inventario di Stefanoni annovera tra i propri soggetti numerose matite, pennini, pennellesse e tutti quegli strumenti del mestiere che appartengono a un contesto domestico e ormai familiare. Si noti inoltre come il discorso metalinguistico venga enfatizzato attraverso il rigore compositivo: ascisse e bisettrici suddividono il piano pittorico in riquadri per alludere alla progettualità dei singoli utensili, ognuno dei quali viene delineato e denotato per mezzo di una marcata linea di contorno. Per Stefanoni il problema non consiste nel dipingere un quadro, bensì nell’inquadrare un soggetto che dev’essere costruito in base al reticolo geometrico. In questo caso la schematizzazione non è solo razionale ma anche concettuale. L’artista riorganizza infatti lo spazio mentale-visivo attraverso la sintesi di una rappresentazione-quadro.
Nel volgere di pochi anni il repertorio iconografico diventa più versatile e comincia a prendere in esame la segnaletica stradale, riconoscendo in essa degli stereotipi e non già dei simboli archetipali. Stefanoni pare convenire con la disamina fatta da Dorfles quando paragonava le indicazioni viarie a “un piccolo universo di ‘lettere visive’, di semantizzazioni grafiche, che ci colpisce di continuo, cui non possiamo sfuggire, che costituisce l’humus del nostro modo di essere e di vedere”. Seppur involontariamente – parodiando i pittori della Pop romana che si rifacevano in modo pedissequo all’arredo urbano – Stefanoni reinventa la morfologia del codice stradale negli stessi anni in cui Winfred Gaul porta a compimento la serie Verkehrszeichen und Signale. Ma se in Gaul prevale ancora il supporto della tela e l’adesione all’Hard Edge, in Stefanoni permane invece l’ironia e la tautologia, tant’è vero che il cartello è rigorosamente in ferro e corrisponde alle misure regolamentari della viabilità.
Nient’affatto scontato è l’uso parsimonioso che l’artista fa della pittura, quasi sempre stesa a campiture piatte e limitata ai colori primari. Monocromi e inespressivi sono anche i fondi (il marrone del lino grezzo, il grigio del ferro tranciato, i bordi rossi dei segnali di pericolo o le campiture blu per i segnali d’obbligo); e poiché a dominare la tavolozza è soprattutto il nero che contorna gli oggetti, il passo successivo non può che essere in direzione del chiaroscuro. Abbandonato il codice stradale è ora la volta del codice miniato: Stefanoni ricorre alla lente d’ingrandimento e alla grafite per dipingere con esemplare perizia, e in modo altrettanto perentorio, quella che gli antichi pittori avrebbero definito ropografia. Cocteau asseriva che nelle opere di de Chirico “gli oggetti non si sono dati appuntamento”; viceversa, nei quadri di Stefanoni assistiamo al rendez-vous di “cose minute” che si dispongono in sequenza, ordinate lungo una sottile linea d’appoggio che ottempera alla necessità di un orizzonte. Si tratta dell’Elenco di cose (1976-83), un corpus di opere costituito da 215 tele che coprono un periodo di circa otto anni. Inutile dire che questo severo e metodico lavoro fatto di dettagli infinitesimali obbliga Stefanoni a comprendere la realtà replicandola e congelandola all’interno di cornici che rispecchiano la grisaglia del disegno. L’analisi capziosa (degna di un architetto-ingegnere o di un ricercatore-scienziato) è l’ennesimo esercizio di concentrazione in cui lo spettatore è invitato a individuare l’equivoco-enigma che si cela dietro ogni dipinto.
Nel frattempo la ricerca di Stefanoni viene intervallata dai brevi cicli delle Memorie (1975-76) e delle Apparizioni (1983-84) che sono una remise en question degli utensili con cui aveva familiarizzato in precedenza, con la differenza che i soggetti iniziano ora a perdere in definizione. Pur continuando a celebrare un quotidiano standardizzato, il disegno cede finalmente il posto all’incanto e al trionfo del colore. Dalla metà degli anni Ottanta Stefanoni dipinge su tela i temi tradizionali della pittura – la natura morta, il paesaggio – con una resa metafisica e geometrizzante che si declina nelle diverse ore del giorno o nelle differenti stagioni dell’anno. Rinunciando a spiegare l’ovvio, l’artista rinuncia altresì alla loro nomenclatura, li chiama Senza titolo ma potrebbero benissimo intitolarsi “pitture”. Tutto è evidente oltre ogni misura, se non fosse che l’immagine è soltanto un pretesto, un alibi o aneddoto visivo. Lui stesso insiste a dire che i quadri non sono differenti da un tavolo o da una sedia, gli uni e gli altri sono strumenti di cui il fruitore può servirsi. Per Stefanoni la pittura deve essere un mezzo, non un fine.
Fatta eccezione per gli slarghi panoramici, i Senza titolo sono tutti di piccole dimensioni in quanto necessitano di essere guardati da una sola persona per volta. È grazie a una contemplazione individuale che si può sopravanzare il soggetto, riuscendo così ad addentrarsi nella finzione pittorica che è “una sconcertante realtà”. Se le Tavole e l’Elenco di cose erano state concepite come le pagine di un unico libro-diario, i quadri degli ultimi quattro decenni compongono un enorme Atlante che non vuole sedurre per le sue qualità emotive bensì per i suoi valori razionali. Ancor più intime sono le coeve Sinopie (2001 – in corso). In queste opere l’acrilico diventa nebuloso, la scarna linea del nero sfuma progressivamente nel bianco, le silhouette vibrano, si fanno evanescenti, quasi fumiganti. La sinopia è l’essenza dell’arte, è il suo disegno preparatorio (che resta nascosto, quindi segreto). La sfida tra Apelle e Protogene ci ha insegnato che il controllo del segno è il fondamento stesso della pittura, ragion per cui Stefanoni ha coltivato la tecnica in ardua virtus, attraverso continue “prove” e “fatiche”. Retrospettivamente appare chiaro il tenace apprendistato che l’artista ha affinato grazie a una lunga serie di esercizi che gli hanno permesso di prendere confidenza con gli strumenti del mestiere. A ben guardare, i succitati cicli tematici sono da considerarsi come altrettante tappe del grande lessico formale dell’arte. Le loro stesse titolazioni, che sono scandite da progressioni alfanumeriche, corrispondono ai numerosi compiti che Stefanoni ha assolto con pazienza e perseveranza, attitudini che predispongono alla vera conoscenza. Anteponendo il lavoro al piacere, l’artista ha coltivato la minoris pictura dedicando la sua vita a cose umili – finanche nelle loro stesse dimensioni – che ha saputo reiterare in schematiche morfologie. Oggi Stefanoni può finalmente ammettere di aver risolto il cruccio di ogni artista: il problema dell’arte come tecnica e non come semplice voluttà.
Quanto detto trova risconto nell’arguzia di Emilio Villa che nel 1985 gli aveva dedicato queste righe: “Il pittore ha dichiarato, e ancora dichiara, e non sommessamente: ‘voglio essere il canto, il cantore, il vate-pittore del piccolo oggetto della vita quotidiana. Tale è la disarmata, umile, squisita e infedele bugia: egli deve sapere bene, suppongo, che invece tutto è al di là, a fianco, di sopra e di sotto, in sfera operante: e che l’‘oggetto’, il piccolo granello dell’‘uso’ o della ‘usanza’ o ‘ergologico’ appunto, è una soffice inezia, un punto istantaneo di riconoscimento dell’altro, del tuttaltro, del tutto è l’altro”. Ciò che Villa non scrisse in quel testo è che dopo una prolungata disamina dei quadri di Tino Stefanoni ammise di aver capito che la sua “non è pittura”.