Umberta Genta: Quando sono stata alla tua mostra “She Lay Down Deep Beneath the Sea” al Turner Contemporary a Margate, ho provato istintivamente un senso di pace, quasi di “distacco”. Rispetto alla tua retrospettiva del 2011 alla Hayward Gallery, questo è, o vuole essere, un nuovo step. Ho apprezzato il fatto che la mostra si svolgesse nella città in cui sei cresciuta. Ma ammetto che una parte di me rimpiangeva un po’ “la Tracey di una volta”. Premetto che sono una lenta metabolizzatrice, e forse ho avuto nostalgia della sregolatezza che ti contraddistingue. Hai davvero fatto una transizione?
Tracey Emin: Sì. Senza dubbio. C’è anche da considerare che i lavori in mostra erano completamente nuovi, perché sapevo di dover dare a Margate qualcosa di diverso. E se per “la Tracey di una volta” intendi le coperte, i neon e i soggetti hard core, tutto quello c’è ancora — solo non per la mostra di Margate.
UG: Questi nuovi lavori colpiscono per la delicatezza e i toni chiari predominanti. Il letto disfatto ha lasciato posto a un materasso (Dead Sea), che non allude troppo esplicitamente a chi ci ha dormito. Il tuo approccio formale sta tendendo verso qualcosa di più minimalista?
TE: No. In quel caso volevo semplicemente che i lavori fossero molto classici; e comunque il materasso ha tante macchie, e sono tutte mie. Quel lavoro parla della perdita della fecondità e della consapevolezza che la giovinezza non tornerà mai più.
UG: A proposito di giovinezza, hai mai rivisto i ragazzi di Margate che nomini in Why I Never Became a Dancer? (lavoro del 1995, in cui l’artista descrive un episodio della sua adolescenza, in particolare una gara di ballo, in cui alcuni ragazzi — con cui ha avuto rapporti sessuali — la insultano pesantemente davanti al pubblico mentre lei si esibisce, NdR). E come ti sei sentita?
TE: Sì. Li ho rivisti. Uno di loro è un ballerino di successo a Las Vegas. E si è scusato, anche perché ha delle figlie sue, adesso. Non è giusto che un ventenne faccia sesso con una quattordicenne.
UG: Ho sempre percepito il tuo lavoro come innocente in maniera disarmante, anche nelle sue manifestazioni più brutali. Racconti la storia di una donna, e nel processo narrativo metti in scena tutte quelle cose che evocano femminilità. Hai una soap opera preferita?
TE: Da giovane ero una fanatica di Brookside. Aveva un certo humour, ma faceva anche vedere una realtà crudele. Si svolgeva nei sobborghi di Liverpool. L’ho seguita per anni. Adesso, se voglio rilassarmi, guardo CSI, un episodio dopo l’altro, o Criminal Minds, qualunque serie TV che parli di omicidio.
UG: Qual è la cosa più importante che porti con te dalla fine degli anni Novanta, periodo in cui sei diventata parte dei YBA? E questo come ha influenzato chi sei oggi?
TE: La fine degli anni Novanta è stato un periodo selvaggio, che ha prodotto molte mostre collettive internazionali, mi ha permesso di incontrare tanti artisti internazionali miei coetanei, e questa di per sé è stata un’esperienza meravigliosa. Carsten Höller, Pipilotti Rist, Franz Ackermann, Elke Krystufek — è fantastico vedere come siamo cresciuti, e come qualcuno di noi invece no!
UG: I media ti pongono maggiormente domande che riguardano la tua sfera personale. Pensi che essere una celebrità influenzi l’essere artista?
TE: Penso che nel mondo dell’arte serio questo sia stato un problema per me, perché in Gran Bretagna sono conosciuta dai mass media, il che significa che non c’è posto per i musei e le istituzioni più serie — sono già impegnata.
UG: Ricordo di averti sentito dire in un’intervista che avverti che la tua energia sessuale sta diminuendo. Hai mai avuto paura che la tua arte fosse troppo dipendente dalla tua vita sessuale? Hai mai pensato: “E adesso, che faccio?”
TE: Beh, tu stessa hai appena detto che ti manca la “Tracey di una volta”. Ho quasi cinquant’anni, sono nella seconda fase della mia vita ormai. Sono molto più interessata all’amore. E quello non ti arriva con una bella scopata.
UG: Anche se hai detto pubblicamente di non desiderare figli, trovo che una parte del tuo lavoro sia invece profondamente materna, nel modo in cui esprime la maternità nei suoi aspetti più teneri, e quelli più drammatici. Se fossi stata madre, avresti continuato a fare l’artista?
TE: Assolutamente no. Perché non amo fare compromessi. E credo che, quando ho abortito la prima volta, nel mio subconscio avvertissi già questa sensazione; mentre al mio secondo aborto questo era già una certezza.
UG: C’è una parte di critica che accusa te e il tuo lavoro di essere diventati “borghesi”. Come risponderesti in tre parole?
TE: Fatemi il piacere.
UG: Nella tua carriera di artista, qual è la domanda che avresti sempre desiderato ti facessero, ma non ti è mai stata fatta?
TE: Ti amo. Vuoi sposarmi?
UG: Cosa reputi il tuo maggior successo?
TE: L’andare avanti. E aver realizzato il mio studio. Ed essere completamente, al 100%, indipendente come donna.