Soltanto un anno fa My bed segnava il record personale di Tracey Emin: battuto a oltre 2 milioni e mezzo di sterline da Christie’s, quell’opera si inseriva tra i classici dell’arte contemporanea. La mostra da Lorcan O’Neill presenta le evoluzioni del lavoro della bad girl di Margate, mettendo in scena la sua indole storica, sempre più vicina ai classici del Novecento, intesa forse a smentire i luoghi comuni che la relegano alle trasgressioni di Sensation e all’epoca dei YBA.
Angelo Capasso: La mostra “Waiting to Love” presso Lorcan O’Neill segna il tuo ritorno alla pittura. Dai tempi della partecipazione al Padiglione Britannico della Biennale di Venezia del 2007 ci sono state alcune incursioni nella pittura, tra i disegni, i ricami, il film, ma in questo caso si può parlare di un protagonismo più consistente dei dipinti. C’è un motivo particolare per questa scelta?
Tracey Emin: Per quanto riguarda la Biennale di Venezia, devo dirti che quando ho “ottenuto” la Biennale… — uso questo termine “ottenere” (inglese “to get”, N.d.A.), perché in Gran Bretagna quando si partecipa alla Biennale, la si considera come una sorta di trofeo che non si può rifiutare, al di là del proprio percorso artistico — ho ricevuto l’invito soltanto otto mesi prima… quindi terribilmente tardi. Non avrei mai avuto tempo per fare ciò che volevo realmente. La scelta era: mostrare una raccolta di vecchi lavori, e quindi rimanere intrappolata nel passato, oppure lasciare spazio al futuro… e il futuro per me sono la pittura, i disegni e la scultura.
AC: Le tue affinità elettive con Egon Schiele che appartengono al tuo lavoro da sempre, e sono ben visibili in questa nuova mostra, sono diventati una vera e propria dichiarazione di amore con la mostra “Where I want to go” che si è appena inaugurata al Leopold Museum di Vienna. In questa mostra tu stessa hai scelto dei suoi lavori per instaurare un dialogo a distanza nella storia con l’artista austriaco. Come hai operato in questa scelta?
TE: Lavorando con il Leopold Museum ho avuto accesso a un gran numero di opere d’arte. Potevo letteralmente fare ciò che volevo. Nel mio dialogo con Schiele ho deciso di scegliere i disegni, le gouaches, i lavori su carta e un dipinto che raffigura una montagna, perché amo i suoi paesaggi. Difficilmente si può associare l’opera di Schiele a quella di un paesaggista. Il mio scopo era di mostrare uno Schiele diverso rispetto al modo in cui la cultura austriaca l’ha presentato storicamente. M’interessava aprirlo a una lettura più ampia. Si può dire che Schiele, come me, è rimasto intrappolato culturalmente: lui nella Vienna del 1910, io nella Londra tra il 1990 e il 2000. Oggi, Egon Schiele può fare per me quello che io posso fare per lui. È come se condividessimo una strada.
AC: Tra i pittori dell’Espressionismo viennese, Schiele si distingue anche per la storia personale molto complessa: la relazione con le donne, i trascorsi in carcere… (Schiele fu arrestato per aver sedotto una minorenne). C’è qualcosa che ti ha colpito della sua vita privata, oltre che nelle opere?
TE: No, questo aspetto non mi interessa. Vienna era comunque una città molto violenta. Era il centro della pornografia e dello sfruttamento del sesso. Una città selvaggia. E, credimi, Schiele non era così selvaggio come Vienna. Del resto le sue immagini non erano troppo lontane da quelle di Turner o di Rodin, dai quali ha subito una forte influenza.
AC: Vienna è anche la città madre della psicoanalisi. Ti interessa questa disciplina?
TE: Sì e no. Sono molto più interessata alle risposte emotive vere. Cerco di lavorare sull’immediatezza. Non m’interessa analizzare prima. Voglio che il lavoro risponda direttamente alle mie emozioni. In tal senso, sono soddisfatta del modo con cui ho stretto relazione con il mio lavoro. Quando ho fatto i disegni sulla “Cave Woman” ho riportato un caso significativo: la Cave Woman ripete lo stesso disegno all’infinito, in quanto quello è il significante di un linguaggio. Ciò che faccio è dar vita al mio linguaggio. Nel 1993, ad esempio, ho realizzato una serie di “Abortion drawings”, che ho ripetuto nel 1995. Nel 1998, ne ho fatta un’altra serie. In seguito ho tentato di farne degli altri, ma non ci sono riuscita. Poi, tre anni fa, quando sono stata in Australia, ospite da un’amica, avevo il desiderio di lasciarle un disegno per ringraziarla dell’ospitalità. Volevo fare un disegno di me che dormivo sul letto di casa sua. E invece sono venuti fuori degli “Abortion drawings”. Erano su fogli da scrittura. Bellissimi. Non posso decidere a priori ciò che faccio.
AC: Vale anche per la pittura?
TE: No. Per la pittura il processo è completamente diverso. Su alcuni dipinti posso lavorare per anni.
AC: In questa mostra c’è un dipinto, I said no, datato 2005-15, che ha la particolarità di lasciar intravedere diversi strati di intervento…
TE: Infatti, in un periodo di tempo così lungo può succedere che io li ridipinga o che decida di distruggerli. In alcuni casi, anche quando sembrano freschi appena fatti nascondono altri dipinti sotto. Quel dipinto, inizialmente doveva essere un “writing painting”, ed è rimasto così per anni… avrei potuto lasciarlo così. Poi ho cancellato la scrittura, e ci ho dipinto sopra. Avrei potuto coprire gli strati sottostanti, ma ho deciso di lasciarlo con la freschezza e la fluidità del disegno, ed è bellissimo così con la scrittura che viene fuori. Quando lasci il dipinto fermo a lungo, gli strati sotto iniziano a venir fuori come dei fantasmi.
AC: In questo processo quindi la memoria iniziale resta intatta. E in che modo decidi che il dipinto è finito?
TE: Il dipinto è finito quando decido che si presenta nel modo in cui voglio vederlo. Quando guardo i dipinti di altri artisti delle volte mi chiedo:“come è riuscito a fermarsi proprio lì?”. Ad esempio, per il mio dialogo con Francis Bacon, ho scelto un’opera molto delicata con un cane: è un quadro molto semplice, presumibilmente incompleto tanto da proporre quella domanda: come ha fatto a sapere che doveva fermarsi lì? È fantastico.
AC: Potremmo dire che i più grandi pittori sono coloro che sanno quando è giunto il momento di lasciare il quadro. Ritieni di avere più esperienza oggi per riconoscere quel momento finale?
TE: Certamente. Dipingere non significa stare per ore con il pennello sulla tela. È molto più importante stare seduti davanti alla tela per ore, per poi alzarsi improvvisamente e dipingere. Questo significa rispondere a questa cosa davanti a te che stai alterando e che allo stesso tempo altera la tua mente. Si crea una sorta di confronto e di trasformazione reciproca.
AC: Pensi che questo sia stato lo stesso modo con cui Egon Schiele affrontava la sua pittura?
TE: No, non credo. Comunque, lui era anche molto più giovane di me. Forse alla mia età avrebbe fatto lo stesso. Immagino che Schiele un giorno sarebbe stato a New York e sarebbe diventato un espressionista astratto. C’è da dire poi che più tardi ha anche fatto un eccessivo uso della fotografia: ci sono delle opere in cui è chiaro che i profili sono ricalcati da foto, sono immagini troppo perfette, nessuno avrebbe mai potuto disegnare in quel modo. Le opere giovanili sono molto più libere.
AC: Se pensi ai prossimi dieci anni, quali sono i progetti che vorresti realizzare?
TE: In futuro voglio esporre con Munch, con Rodin, vorrei fare un progetto in una grotta, vorrei fare degli interventi nella natura, vorrei lavorare ancora molto con il bronzo, anche su dimensioni molto più grandi. Sto realizzando un progetto di arte pubblica a Sydney in Australia. È un grande progetto per il quale ho realizzato degli uccellini in bronzo. Non mi interessa tanto il progetto di arte pubblica in sé, quanto seguire il mio lavoro e vedere che dimensioni assume, capire quanto sono in grado di lavorare sulle grandi dimensioni. E non ho intenzione di andare in uno studio per lavorare con software 3 D, ma di fare io il lavoro, per capire se sono in grado di farlo fisicamente.
AC: È un confronto che dal mondo esterno conduce al mondo interiore.
TE: Esatto. Quando ero più giovane ero colpita dal mondo esterno. Ora mi interessa la mia interiorità. Questo dialogo con gli artisti appartiene alla mia interiorità. Dipingere mi rende sempre felice. Ho un piccolo studio in Francia, ed è fantastico, ogni piccola cosa che realizzo lì funziona perfettamente. L’arte mi dà la felicità, per altri magari possono essere altre cose: gli amici, gli amori, la famiglia…per me la felicità è nell’arte.