“Tutti i passi che abbiamo fatto nella nostra vita ci hanno portato qui, ora”.
Alberto Garutti, lo pensa, lo dice e lo scrive, come sua opera di matrice concettuale.
A pensarci sembra logico. Lo scrittore tenta di catturare il lettore inchiodandolo al “qui e ora”, come Italo Calvino. Ricordate? (Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero… è il libro in sè che t’incuriosisce, anzi a pensarci bene preferisci che sia così, trovarti di fronte a qualcosa che ancora non sai bene cos’è.).
Ma curiosamente questo assunto vale anche per l’Autore che si trova catturato di fronte alla propria opera (e alle proprie responsabilità). Ora Garutti è entrato al PAC, Milano, via Palestro 19, dove tante volte è venuto da visitatore, oggi da protagonista. E le sue opere lo guardano, hic et nunc, sono lì che lo aspettano, vogliono vedere cosa pensa di loro. Alberto Garutti non ci porge una mostra ma un insieme di esperienze che si fanno opera nel momento in cui chi è presente, Autore compreso, reagisce al loro accadere. Un’opera cade nella nostra vita: cade dal cielo come i fulmini italiani collegati al PAC, che fanno accendere cento spot; cade nella nostra attenzione come le lampadine che si illuminano ogni volta che nasce un bambino; cade nelle nostre mani in forma di foglio di carta rossa alla Serpentine, dove mille lettori alla maratona di Obrist si accorgono, leggendo, di essere lì arrivati dopo tutti gli anni e tutti i passi precedenti.
Il lavoro di Garutti non parla infatti dell’Autore, parla all’Autore e allo spettatore che vengono catturati come in uno specchio di Borges o di Lewis Carroll, entrambi costretti (o invitati) a guardarsi e pensarsi, uniti da un’insolita attitudine. Il Professore di Brera, il Maestro che ha lanciato nel mondo delle arti tanti giovani artisti come mai era successo, l’artista insegnante che prosegue in chiave moderna il lavoro dei grandi come Wildt o Marino, Fabro o Alik (curiosamente, principalmente, solo scultori ci vengono in mente), non produce ormai più opere per le gallerie, da mostrare, vendere, appendere, difendere. No, lui è uscito dalla finestra del sistema dell’arte, per non sbattere l’uscio, si è sciolto nel mondo, e per qualche anno ne abbiamo perso le tracce. Ha tentato lavori che avessero un senso condiviso dagli abitanti dei luoghi toccati. Un piccolo teatro abbandonato a Peccioli riportato alle proprie origini; un palazzo nobiliare a Valmontone con la musica che fece innamorare i giovani rifugiati durante la guerra; la facciata di Colle Val d’Elsa rifatta, nella città natale di Arnolfo, il ponte sul Bosforo a Istanbul che si accende ogni volta che nasce un piccolo turco…
Lavori che si schermiscono, mimetizzandosi nel paesaggio urbano, per non dare fastidio. Lavori “pubblici” e non privati, che creano il loro lettore ideale, che mettono il loro Autore, democraticamente mimetizzato tra quelli che guardano e si meravigliano di un lavoro che non vuole essere eroico, unico, irripetibile, algido, intoccabile. Al PAC i lavori ci guardano, anzi ci ascoltano: noi frequentatori consapevoli e consenzienti abbiamo firmato una liberatoria. Trasformati in critici, ogni nostra osservazione verrà registrata dai microfoni-spia che scendono dal soffitto per catturare il nostro contributo all’opera dell’ormai famoso Maestro di Brera, che venne da me pochi anni fa, nel 1976 a mostrarmi lavori ancora acerbi, quando io ero un gallerista di grido e lui un giovane di belle speranze. Ora Garutti è tornato dal suo lungo viaggio carico di esperienze, ricco di un lavoro che acquista un senso nella sua intera complessità. Tutti i passi che ha fatto nella sua vita lo hanno portato qui, ora e oggi sono io che chiedo a lui di rientrare in galleria dalla porta, dopo che se ne è andato per il mondo uscendo dalla finestra, per non sbattere l’uscio…