In un momento nel quale le esperienze di produzione culturale che siamo soliti far ricadere nell’ambito delle visual arts sembrano cedere sempre più esplicitamente alle seduzioni dello show business, alimentando uno star system di artisti a misura di media e collezionisti, continuano a esistere delle forme di espressione che procedono con una logica diametralmente opposta. Un esempio tra i più evidenti e sicuramente tra i più interessanti è rappresentato dall’ala più radicale della techno music. La techno nasce a Detroit negli anni Novanta e rappresenta uno degli ultimi esempi compiuti di controcultura, di opposizione radicale alle logiche del consumo culturale di massa. È una forma espressiva prodotta da uno specifico contesto etno-culturale, quello black, in una città come Detroit che sta già sperimentando un processo di deindustrializzazione massiccia che ne farà in breve tempo il simbolo primario della shrinking city, della città socialmente ed economicamente devastata dalla crisi ma che però, proprio per questo, si trova a disporre di spazi fisici e mentali senza precedenti per aprire nuove strade, immaginare nuove modalità di produzione e di coesistenza creativa. Non è un caso che, a distanza di decenni, Detroit continui a essere il riferimento primario della techno più intransigente nel fare concessioni alla spettacolarizzazione e al divismo mediatico che pure ha invece portato sulla cresta dell’onda del clubbing di tutto il mondo coloro che, come Plastikman-Richie Hawtin (wasp, non a caso?), hanno attinto al terreno creativo della Detroit techno per creare una delle macchine spettacolari più coinvolgenti e raffinate degli ultimi decenni, che alimenta appunto, e non a caso, uno star system in rapidissima crescita come quello del techno DJing più glamour, quello di casa a Ibiza, Londra e Berlino — e ormai in qualunque posto del mondo in cui ci siano grandi folle che hanno voglia di ballare e divertirsi con suoni elettronici meno banali e prevedibili del solito.
Accanto agli ormai tanti nomi famosi che occupano con sempre maggiore frequenza i media mainstream e spuntano per ogni loro presenza cachet stellari continuando a spostarsi come instancabili globetrotter nei club più trendy, esistono da sempre figure che invece rifuggono non soltanto da ogni valorizzazione mediatica, ma che addirittura celano la loro identità, si fanno invisibili senza per questo ricercare un sensazionalismo dell’invisibilità, si nascondono dietro sigle volutamente effimere e spesso fuorvianti, o addirittura scelgono un anonimato assoluto arrivando a negare anche la possibilità di legarsi a sigle riconoscibili. Attraverso questa strategia, la tradizione più radicale ed ermetica della Detroit techno costruisce una potentissima performatività della non-presenza che, soprattutto se confrontata con le derive sopra ricordate, ci appare come uno dei gesti artistici più complessi e interessanti della scena attuale, oltre che come un esempio di integrità e di coerenza degno del massimo rispetto. Gli antesignani di questo mondo enigmatico e sfuggente sono sigle come Drexciya e UR (Underground Resistance), che rappresentano oggi una componente imprescindibile della leggenda originaria della techno, e che continuano a esercitare una influenza chiara e leggibile sulla produzione attuale, compresa quella più orientata ai grandi club e alle grandi folle.
Drexciya in particolare colpisce per la carica visionaria della sua estetica, tutta fondata su una narrazione esoterica di una civiltà acquatica che proviene da un sistema stellare lontano, da un altrove imperscrutabile che però lascia qualche traccia intelligibile nel nostro mondo — non abbastanza però per dare luogo a una narrazione compiuta, quanto piuttosto per creare una sottile inquietudine, il senso di una realtà che si fa strada in modo strisciante nella “nostra” per colonizzarla e sovvertirla dall’interno, come nell’enciclopedia borgesiana di un altrove chiamato Tlön, Uqbar, Orbis Tertius che non è soltanto un mondo “altro”, ma un serbatoio di dispositivi concettuali fatti per aggredire e trasformare il nostro concetto di realtà e la sua percezione.
Con il tempo, lo sviluppo della Detroit techno più estrema ha coinvolto anche figure non appartenenti alla cultura nera, a dimostrazione del fatto che l’elemento caratterizzante non è tanto la matrice etnica, quanto piuttosto proprio l’atteggiamento di sottrazione, la volontà di non apparire e quindi di non esserci. È quanto accade con progetti quali Basic Channel, un altro nome folgorante nella genealogia della techno più “invisibile”, che ancora una volta si nasconde dietro una cortina di nomi enigmatici e spesso intercambiabili (Vainqueur, Substance…) per poi dichiararsi ironicamente ma ancora una volta senza concedere nulla alla visibilità, come nel progetto Maurizio di uno dei numi tutelari, Moritz von Oswald, musicista oggi ricercato e apprezzato anche dalla scena musicale colta più sperimentale e capace di pubblicare le sue ultime produzioni su etichetta Deutsche Grammophon: il massimo dell’istituzionalità coniugato a una strategia di invisibilità! In alcune delle sue incarnazioni (Rhythm & Sound), il mondo Basic Channel produce un legame esplicito con una delle tradizioni musicali recenti più mistiche, quella del reggae iniziatico di Bob Marley, creando le premesse per la nascita della dub techno, la forma forse più astratta e contemplativa assunta dal genere, attraverso una sofisticata e minimale elaborazione dei frammenti più essenziali del suono reggae rimontati in uno spazio sonoro che non potrebbe essere più asciutto, assoluto, esigente nei confronti della capacità di attenzione/estraneazione dell’ascoltatore, che viene al primo contatto spesso tramortito da una ripetitività che rivela i suoi segreti soltanto dopo ascolti ripetuti. È da questa matrice che prende spunto un’altra figura centrale di autore non-black ma decisiva nel portare avanti la parabola genetica della dub techno: Rod Modell, il cui lavoro ancora più estremo di esplorazione delle forme più modulari e ripetitive della techno si muove in una direzione imperscrutabile, che parla a un numero limitato ma fedelissimo di proseliti che ne sorvegliano con attenzione le manifestazioni, per lo più attraverso canali appartati ed effimeri della Rete e solo secondariamente attraverso la scarna e quasi reticente comunicazione dei siti ufficiali.
Ma è da un’altra costola importante della Detroit techno originaria che nasce l’esperienza di uno dei collettivi più interessanti e sfuggenti della scena attuale: Sandwell District — un collettivo che raggruppa una serie di personalità (Silent Servant, Regis, Female, Function) delle quali in alcuni casi non si conoscono nemmeno i nomi di battesimo e che recentemente, dopo qualche anno di attività condotta secondo le solite regole di invisibilità quasi totale per quanto intervallata da qualche apparizione dal vivo di alcuni esponenti, hanno pubblicato sul loro non-sito Tumblr (wherenext.tubmlr.com) a fine 2011 una secca quanto perentoria dichiarazione di cessazione di attività che in realtà non fa che aggiungere indeterminazione e mistero al mistero, anche e soprattutto per il non-appuntamento a cui allude (“see you on the other side”). Nella galassia Sandwell District sono peraltro apparsi nomi come Rrose, dal chiaro riferimento duchampiano anche nella scarna iconografia associata alle produzioni musicali, la cui identità è del tutto segreta e che ha recentemente pubblicato un lavoro particolarmente impressionante in collaborazione con il poco noto ma carismatico musicista-attivista Bob Ostertag che costituisce una sorta di testamento spirituale del collettivo appena dissolto (ma allo stesso tempo evidentemente molto attivo — prova ne è per esempio la collaborazione di Regis con un’altra delle sigle silenziose della techno sperimentale, Ancient Methods, con cui ha dato inizio al progetto Ugandan Methods).
Le poche ma significative immagini pubblicate da Sandwell District sul loro “non-sito” e l’esplicito ma allo stesso tempo ellittico riferimento ai dispositivi duchampiani mostrano chiaramente come l’attenzione per i processi di produzione di senso tipici delle visual arts sia tutt’altro che un vezzo quanto piuttosto un preciso riferimento delle pratiche del collettivo — che però vengono qui portate avanti con un’autenticità radicale della quale è difficile trovare traccia nell’art world contemporaneo. Non a caso, sono riferimenti che trovano anche un riscontro fisico-installativo, ma in situazioni remote, spesso non annunciate, fortemente effimere, programmaticamente non rivolte all’art world. Accessibili a tutti e a nessuno. Al di là di questa frontiera ci sono solo i progetti unknown, le produzioni senza nome, senza titolo, senza identificazione di catalogo che non sia quella auto-referenziale di un’etichetta che nasce e muore con esse, spesso pubblicate in tiratura limitata e diffuse attraverso canali marginali, ancora una volta programmaticamente effimeri. È l’opera che parla, senza finte, senza ipocrisie, senza equivoci.
Questi mondi creativi indicano una frontiera dalla quale l’art world contemporaneo si mantiene, appunto, molto lontano. Ma definiscono una scena straordinaria, affascinante, intransigente nel seguire le sue proprie regole e di conseguenza carica di una forza espressiva assoluta, straniante, lontana da qualsiasi compromesso. È un mondo di senso che non si propone di piacere a nessuno, che non ammicca, non si mette in posa in nessun modo come invece fa tanta arte contemporanea per la quale il radical è una strategia di marketing come un’altra. È la linfa di cui c’è bisogno per tornare a lavorare in modo efficace, credibile, convincente, per restituire all’arte quell’alterità senza la quale rischia di diventare una fucina di cicisbei per piccole corti di ricchi annoiati — sempre che dell’arte qualcuno senta ancora il bisogno e la mancanza.