Una piccola premessa
In quella Roma degli anni Sessanta di cui tanto si favoleggia, due amici su una Lancia Spider rossa percorrono le vie consolari. Vanno a tirare con l’arco sull’Appia o sull’Aurelia. Pino Pascali ha un arco “istintivo”, primitivo, simile a quell’Arco di Ulisse che è una delle sue ultime opere. Maurizio Mochetti ha un arco più complesso, dotato di tutte le più aggiornate attrezzature tecnologiche. Pascali — secondo lui la tecnologia è superflua — perde e si arrabbia.
Tanti anni fa Maurizio Mochetti mi ha narrato questo racconto. Ho sempre pensato che fosse una chiave di lettura per il lavoro dei due grandi artisti. Un’analoga differenza c’è tra le “armi” di Pascali, come il Cannone Bella Ciao (1965), la mitragliatrice, la bomba, e quelle di Mochetti, come lo storico Razzo potenziale del ’69 che, una volta raggiunta la quota, si distrugge lasciando sui cartoni le impronte della combustione. In nessuno dei due casi si tratta di apparecchi di offesa bellica o di aggressione, una volta tramutate in opera d’arte le armi cambiano di segno. Le armi di Pascali sono prodotti di bricolage, segnalano l’aspetto ludico della sua opera, fanno rivivere l’innocua mitologia infantile della guerra come gioco; quelle di Mochetti, invece, evidenziano lo studio delle relazioni con lo spazio, l’analisi degli stati di moto e quiete, la verifica delle possibilità dell’oggetto stesso. L’aneddoto marca lo scarto che si crea in quello che è un vero e proprio passaggio generazionale, anche se tra Pascali e Mochetti ci sono cinque anni di differenza: dall’arte “povera”, legata al mondo naturale, in qualche modo contadino e primigenio, alla mentalità, complessa e sofisticata, più aperta verso futuri sviluppi di Mochetti, un artista non etichettabile (se mai gli artisti lo sono) che resta comunque unico nel panorama italiano e che solo dopo qualche tempo avrà i suoi corrispondenti a livello internazionale.
Luce, spazio, relazione
“Ritengo che la forma prima e corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce… ”, scriveva nella Oxford medievale Roberto Grossatesta, maestro secolare della scuola francescana, poi arcivescovo di Lincoln. Leggendo queste parole ho sempre pensato all’opera di Maurizio Mochetti, di cui è tipico il lavoro con la luce. La luce è la più immateriale delle sostanze, mezzo diafano e impalpabile, veicolo invisibile eppure indispensabile per il senso della vista: proprio per queste sue caratteristiche nella tradizione artistica in genere questo avviene evidenziandone l’aspetto spirituale. Per Mochetti invece la luce ha un corpo, gli interessa l’aspetto fisico. La luce viene utilizzata, come altri materiali e nelle sue relazioni con essi, per qualificare un ambiente come spazio. Oltre alla luce, da cui parte tutto il suo lavoro, Mochetti da sempre persegue la ricerca sulle idee di spazio, suono e relazione tra oggetti. Egli considera come sua prima opera Sfera trasparente con piani di luce (1964): proiezioni geometriche di luce, provenienti da varie direzioni, si visualizzano all’interno della sfera stessa. Come ha giustamente ricordato Germano Celant, sfondo imprescindibile alla vicenda artistica di Mochetti sono le scoperte e gli esperimenti che hanno prodotto tra il 1955 e il 1964 un immenso ampliamento del territorio dell’uomo. Si apre l’epoca dell’immagine del mondo: la terra può essere vista da uno sguardo dal di fuori, si cammina sulla Luna mentre si scoprono nuove particelle, secondo uno sguardo dall’interno. Mochetti si interroga sulla struttura della materia e trova nell’arte il campo esemplare per verificare in vitro, come nella trasparenza di un alambicco, i suoi accadimenti e le sue trasformazioni. Questo determina anche la tipologia dell’allestimento, di incredibile rigore e pulizia: il campo sperimentale non può subire interferenze. Il lavoro successivo è un raggio solare a inclinazione variabile che entra in una stanza attraverso il foro di una parete: “In Raggio di sole (1965) ho utilizzato la luce naturale: è una retta di fotoni in movimento. Il raggio di sole è sempre stato usato in senso mistico, dagli egiziani ai bizantini, a Le Corbusier: storicamente la luce è stata considerata un tramite tra il divino e l’umano. A me interessa la luce nella sua fisicità come materiale: infatti nelle mie opere la luce, sia naturale sia artificiale, è stata direzionata e veicolata. Questa è la differenza nell’uso della luce tra me e gli artisti californiani come Robert Irwin, James Turrell o Maria Nordman. Nell’arte californiana la luce è usata come infiltrazione sulle pareti, quindi intesa in senso naturalistico e mistico. D’altra parte nelle composizioni minimal di tubi al neon di Dan Flavin abbiamo la rappresentazione oggettivizzata di un solido di luce. Raggio di sole, invece, è una retta di fotoni che si visualizza solidificandosi nello spazio e che si muove… ”. Il rapporto con l’arte californiana è un punto cruciale, ma un’attenta comparazione non va certo a svantaggio di Mochetti: “Seppure anteriore di un anno, rispetto alle ricerche californiane di Douglas Wheeler, Eric Orr, Maria Nordman, James Turrell e Robert Irwin”, riconosce Celant, “l’intervento presenta similarità procedurali; tuttavia se ne distingue per l’idea di una linearità mirata che non coinvolge, come per gli ambient artists di Los Angeles, il volume luminoso che interagisce con l’intero ambiente”.
Il laser è diventato quasi logicamente un tipico attrezzo dell’artista, spesso usato per individuare un campo d’energia. Già nel Punto di luce intorno alla stanza (1969, in mostra nel 1970 alla Biennale di Venezia) è presente quell’idea che successivamente il laser permetterà di sviluppare: un pallino di luce gira lentamente per 360° alla stessa quota e velocità. La specificità del laser è la lunga gittata che, come dice l’artista, “ha aperto altre dimensioni”. È sempre così per Mochetti: “L’arte è idea. Gli strumenti, i materiali, la tecnologia sono funzionali alla realizzazione dell’idea”. Nessuna mistica della tecnologia, ma perché rinunciare a usarne di nuove se ci possono portare più vicino all’idea?
Il laser è raggio luminoso, elemento geometrico, linea che disegna lo spazio. La luce, così ben incarnata dal laser, è protagonista di molti lavori di Mochetti ed è sempre usata per il suo valore di strumento materiale. Mochetti lavora sempre sul concetto di spazio, in alcuni casi si inserisce però anche l’elemento temporale e il laser sintetizza queste due coordinate. All’immaterialità della luce si sono rivolti in genere gli artisti. Pensiamo all’analisi che ne fa Balla nelle Compenetrazioni iridescenti. Per Mochetti invece l’estrema leggerezza della luce è un requisito fisico. L’intero lavoro di Mochetti ha il senso di un gioco intellettuale, di una sfida alla scienza con gli stessi suoi mezzi spostati al “campo” dell’arte.
Nella sua prima mostra alla galleria La Salita di Roma nel 1968 Maurizio Mochetti presenta Generatrice di cono, un’asse di alluminio che si muove lentamente descrivendo un arco. In fondo la generatrice è la rappresentazione solida del raggio di luce. “Un giorno potrò esporre quattro generatrici differenti, identiche nell’idea, ma che rappresentano quattro momenti storici diversi. E non si tratta di esaltazione della tecnologia, ma dell’idea che emerge progressivamente grazie alla tecnologia… ”. L’oggetto è progettato nella percezione dello spettatore. L’opera di Mochetti oscillerà sempre tra dimensione fisica e mentale. Il punto di partenza per una operazione come questa non poteva che essere dunque il lavoro di Lucio Fontana. Lo stesso Mochetti ha esplicitamente dichiarato di voler sottrarre ai materiali usati ogni significazione e ogni risonanza interiore. I materiali in Mochetti sono sempre depurati di ogni fattore accidentale. I suoi materiali sono puri, astratti, anche se sembra una contraddizione in termini.Il suo intento tuttavia è quello di verificare le possibili relazioni tra la materia e la forma. Una forma però di cui vuole indagare le possibilità, senza dare una soluzione univoca. Mec. Neop. (1988) assume il titolo dal materiale organizzato in una forma qualsiasi che ha in sé la possibilità del mutamento. L’artista in questo caso rifiuta la possibilità di scegliere una forma e punta sulle infinite possibilità. Un punto laser si muove a una determinata velocità che viene accelerata o decelerata dal percorso del materiale. L’idea di comparazione è alla base di diversi lavori. In Lotus Super Seven Model Series Three (1977) un’automobile color nero e alluminio è inseguita dalla sua riproduzione in scala 1:24. La versione miniaturizzata è posizionata a una distanza tale da essere riflessa nello specchietto retrovisore della grande. Un altro veicolo è entrato a far parte dell’opera di Mochetti nel 1976: l’aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944. “Dopo avere lanciato i suoi razzi, il pilota avrebbe dovuto lanciarsi, mentre il motore a razzo scendeva a terra appeso a un paracadute”: così recita l’invito della personale alla galleria Ugo Ferranti nel 1979. È intorno a questa data che Mochetti sposta la sua attenzione dal modello dell’aereo al camouflage, la pelle che lo riveste. Il camouflage può essere mimetico, come in natura: il manto a strisce della zebra o le squame del serpente fino alle metamorfosi cromatiche del camaleonte sono funzionali a confondere l’animale con l’ambiente naturale, un’astuzia che preserva la specie. Ma c’è un camouflage gestaltico, che è antinaturalistico perché mira a rompere la forma, non ad assecondarla, è deviante perché vuole portarci fuori strada. Da Mimetico di Boetti (1966) alla caffetteria della 53ma Biennale di Venezia di Tobias Rehberger, il camouflage ha un posto nell’arte proprio per questa capacità di ingannare lo sguardo. Filo inox (1983) è un lavoro sul disegno che presenta un elemento filiforme e un suo presunto doppio. F-104 Starfighter (1985) presenta un modellino di aereo che genera un cono prodotto dalla solidificazione della combustione. Gold Midget (1987) è un modellino in oro proporzionale alla vettura reale nel peso, nella dimensione e nel valore.
Nel 1988 Mochetti presenta Pigmento rosso, uno scavo nel pavimento colmo di materia colorata, invitato alla Biennale di Venezia da Giovanni Carandente che scrive: “Su quella grande sagoma sinusoidale proiettò un raggio laser che agendo verticalmente produceva un’immagine in movimento continuo”. Una configurazione instabile e dalle infinite possibilità. Analogo risultato, ma reso ancor più complesso dalle pieghe e dalla condizione di trasparenza, troviamo in Mectulle (1989) dove un laser colpisce le sommità di un paesaggio di tulle vaporoso, leggero e traforato. Se è vero che “in arte alla stessa forma possono corrispondere significati diversi”, è vero anche che la stessa idea può essere espressa da molteplici variazioni formali.
Nel 1992 nella torre ottagonale della Fortezza da Basso a Firenze un aliante a motore bianco con apertura d’ali di due metri vola descrivendo un cerchio perfetto, poco al di sopra delle teste degli spettatori. A tal fine non può dunque avere una velocità qualsiasi: un satellite in orbita se aumenta velocità va nello spazio, se la diminuisce va in perdita. La linea che unisce il motoaliante in stasi al centro del soffitto deve inclinarsi secondo un angolo che è determinato dalla velocità. Il problema è dunque quello di individuare la velocità che rende possibile quella traiettoria. Ancora una volta Mochetti indaga sulle possibili relazioni tra un oggetto, il movimento e le coordinate spazio-temporali.
Infine, nel 2003 Mochetti propone una vettura da record. “Bluebird rappresenta il risultato della più alta tecnica di ingegneristica meccanica, quale esito della cooperazione di ben 86 case inglesi che, unite, erano riuscite a coordinare il loro lavoro… per raggiungere, nella gara del settembre 1960, l’obiettivo degli 800 chilometri all’ora, superando il record dei 600 stabilito da John Cobb nel 1947 sulla pista del Lago Salato” (Filippo Trevisani). Per affrontare il momento cruciale di frenata di quel bolide i tecnici avevano dovuto studiare un sistema multiplo per abbassare la velocità, per poi annullarla completamente tramite l’azione del paracadute. L’ibrido nato dall’unione di un’automobile da corsa con un aereo viene presentato dall’artista paradossalmente bloccato in posa.
Non c’è contraddizione tra tecnologia e natura perché “tutto quello che l’uomo può pensare è naturale”.