La costruzione di una mostra, specie se collettiva, coincide con l’occasione in cui gli oggetti che la compongono rinunciano alla loro individualità per sedimentare in strutture più o meno corali. Le opere d’arte sono di fatto il materiale occorrente di un gioco lessicale aperto a infinite possibilità e, quando il vocabolario cui attingere è una collezione vasta e inesauribile, l’eloquenza del risultato si deve all’originalità del montaggio o alla sensibilità che l’ha guidato.
I tre sguardi che gestiscono l’(ormai) annuale collettiva a Punta della Dogana, quello della curatrice Caroline Bourgeois, della storica dell’arte Muna El Fituri e dell’artista Thomas Houseago, sono lucidi ed emotivi: ne gestiscono la configurazione come un flusso eterogeneo di stasi e accelerazioni, armonie e tensioni e, tra nuove produzioni e prestiti internazionali, restituiscono alla collezione Pinault un impianto stratificato di fisicità, storia ed estetica.
Dal sesso al corpo, dalla natura alla morte, dall’attivismo pubblico a quello domestico, “Untitled, 2020” sembra sottostare a un gioco di equilibri in cui le opere dialogano tra loro riunendosi in sequenze inedite e fornendo risposte provvisorie a tematiche senza tempo. Anche quando non allineati cronologicamente infatti, i singoli lavori sono contemporaneamente contingenti e dipendenti: i disegni ad acquerello di Henry Moore sopravvivono all’oblio della storia per dialogare con Paul McCarthy, Teresa Burga o lo stesso Houseago, e tutti sembrano concordare circa l’urgenza di guardare alla cinesica come atto politico o indizio emotivo. Iris, la figura volante e mitologica di Rodin, si presenta ora adagiata su un tappeto sudamericano che ne drammatizza un erotismo voyeuristico e insieme attutisce una caduta fatale. La sequenza cui appartiene ha infatti il sapore di un memento mori corale che, nonostante la cronologia esplosa, accomuna senza soluzione di continuità i lavori di Luc Tuymans, Marlene Dumas e Henry Taylor.
L’emotività curatoriale incide sulla pressione selettiva e non stupisce intervenga sull’eredità dei singoli lavori al punto da ribaltarne le prospettive o metterne in dubbio il senso. Al corpo, ad esempio, è negato il controllo della libido e, attraverso un percorso che avvicina le sinuose sculture di Alina Szapocznikow ai tornelli dissacranti della giovane Kasia Fudakowski, la mostra propone un’iconografia maschile cinicamente vulnerabile e tutt’altro che virile.
Anche la lotta per l’autodeterminazione del sé, il riconoscimento e la difesa della minoranza o la condanna della violenza sembrano raggiungere obiettivi collettivi solo a patto di uno sguardo intimo e interiore. Dal drammatico Roxys, il bordello frequentato dall’artista Edward Kienholz, al più quieto atelier di Thomas Houseago, qualsiasi atto creativo sembra scaturire da un certo grado di domesticità. Lo studio dell’artista – riprodotto nel cuore di Punta della Dogana e arredato con librerie, divani, tavoli da lavoro e computer – sembra essere il cervello dell’intera mostra: il luogo nevralgico della creazione, il laboratorio da cui tutte le sequenze partono per proporre nuove riflessioni a una storia dell’arte in costante evoluzione.
D’altronde il senso della stratificazione è proprio quello di tracciare nuovi percorsi, turbare le ermeneutiche di parte o semplicemente restituire un’immagine lenticolare della realtà. Invitando a immergersi negli specchi di Joan Jonas, nella potenza catartica di Arthur Jafa o nell’animismo colto e impegnato di Betye Saar, “Untitled, 2020” prova a sospendere le posizioni dominanti e incoraggiare tante interpretazioni quanti sono gli sguardi della contemporaneità.
Come quando si è disarmati davanti alla provvisorietà dell’individuo, si è inermi davanti alla delicatezza della natura, come quando si è esaltati davanti alle idee o alle pulsioni che comportano, le sensazioni familiari, anche nell’arte, si articolano per emozioni rizomatiche.