Dagli anni settanta fino all’inizio degli anni Ottanta, la fotografia italiana vive un momento di impasse, tra vedute da cartolina di fotoamatori, sperimentatori alla ricerca di tecniche sensazionali e reporter d’assalto votati al culto dello scoop. Un tipo di fotografia slegata cioè dai luoghi “reali” e dalla consapevolezza linguistica del mezzo.
L’evento che contribuì più di altri a dare avvio a un radicale cambiamento fu il progetto “Viaggio in Italia” di Luigi Ghirri (Scandiano, Reggio Emilia, 1943 – Roncocesi, Reggio Emilia, 1992). Era il 1984. Il progetto, che si concretizzava in una mostra e in un libro, coinvolgeva una schiera eterogenea di giovani fotografi: Gabriele Basilico, Mimmo Jodice, Guido Guidi, Mario Cresci, Roberto Salbiati, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella e Giovanni Chiaromonte sono alcuni tra i venti autori invitati in un viaggio per immagini lungo l’Italia per recuperare il contatto diretto e “affettivo” con la realtà.
Luigi Ghirri, fotografo e promotore culturale d’eccellenza, prima di giungere a “Viaggio in Italia” aveva alle spalle una pluriennale analisi dell’immagine non “realistica” ma rappresentata. Pensiamo solo a uno dei suoi lavori più significativi, L’Atlante (1973), dove, senza mai venir meno al rispetto delle potenzialità dello sguardo infantile, guarda alle pagine dell’Atlante come a una straordinaria sintesi del mondo, dove tutti i segni della Terra, naturali e culturali, sono convenzionalmente rappresentati. Ghirri si interroga sul valore concettuale delle immagini, analizzando lo spazio, l’intervallo tra l’idea della fotografia e il suo realizzarsi. E sarà proprio questo il nodo problematico sul quale inizieranno a riflettere gli autori coinvolti in “Viaggio in Italia”: un ripensamento cioè dell’immagine ribaltando la retorica dell’impianto pittorico ottocentesco. Ecco dunque che acquista senso la dimensione esperienziale del fare fotografico, soprattutto in relazione al paesaggio, quello marginale, escluso, ma anche all’ambiguità del finto e del doppio1. Le fotografie di Ghirri, sintesi di ironico lirismo e stupore per la grandiosità del mondo, quelle di Guido Guidi, indagine sulle architetture “minime” e marginali, così come la luminosa visione mediterranea di Mimmo Jodice, parlano della “memoria dei luoghi”, con un’attenzione particolare alla periferia, ai territori dimenticati, di frontiera, di passaggio tra l’urbano e il rurale, quegli spazi definiti da Celati “dove non c’è niente da vedere”.
Se dovessimo cercare l’origine di questo interesse rivolto al paesaggio, un’importanza notevole l’avrebbero le fotografie degli Alinari, le esperienze di Giuseppe Pagano e Paolo Monti, l’eredità lasciata dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e le visioni cittadine di Mario Sironi. Ma anche l’opera dei grandi autori americani, Walker Evans, Lee Friedlander, Robert Frank, Stephen Shore, William Eggleston, Robert Adams e Lewis Balz, che hanno un’importanza rilevante anche per molti fotografi di oggi. Guardando all’Europa sono da citare Eugène Atget e Bernd e Hilla Becher con la loro catalogazione di elementi di architettura industriale. Basti pensare al lavoro di Gabriele Basilico (Milano, 1944) “Milano: Ritratti di fabbriche” (1978-1980), dove il linguaggio essenziale e frontale con cui i Becher descrivevano i manufatti industriali è molto evidente. Da questo primo significativo risultato in Basilico prende avvio quella che Paolo Costantini definisce la “poetica del vuoto”2 e che si nasconde nelle periferie, nelle aree marginali, banali, anonime. È indicativo che proprio nello stesso anno di “Viaggio in Italia” Basilico, unico fotografo italiano, è invitato dal governo francese alla Mission Photographique de la DATAR, tappa storica nella fotografia pubblica di paesaggio e architettura della seconda metà del Novecento. Nella sua opera, definita monumentale e sistematica3, malinconica sia per i toni sia per la scelta dei soggetti, emerge il grande sforzo di riordinare il disordine delle città, dei sobborghi, delle periferie, per riprogettarlo attraverso una visione fotografica che ne riveli potenzialità e bellezza. Negli anni di intenso lavoro si sono susseguite commissioni pubbliche e ricerche sul territorio: “Bord de Mer”, “Porti di Mare”, “Paesaggi di Viaggi”, “Scambi” e “” (esperienza sconvolgente realizzata nella martoriata Beirut nel 1991), fino alle attuali ricerche esposte al San Francisco Museum of Modern Art: un progetto di viaggio di quasi 5.000 chilometri attraverso San Francisco e la Silicon Valley per raccontare in 600 scatti i cambiamenti e i contrasti di questo pezzo d’America.
Per individuare un ponte ideale tra le esperienze degli anni Ottanta e il decennio successivo, decisiva è la figura di Olivo Barbieri (Carpi, Modena, 1954). Dalle prime esperienze sul paesaggio, in cui l’uso di un colore saturo accentuava una visione nostalgica dei luoghi nostrani, Barbieri, forse il primo in Italia, approda negli anni Novanta a un tipo di fotografia che per forma e portata si estende al mondo globalizzato in continuo mutamento. Il fotografo viaggia in India, Tibet, Egitto, Cina, estendendo e ampliando il territorio dell’osservabile. Le sue immagini intendono raffigurare in chiave simbolica, quindi non realistica, luoghi e ambienti dove l’uomo, se appare, viene presentato come abitante di un grande plastico, di un luogo artificiale e “finto”.
Ecco dunque che negli anni Novanta si assiste a un nuovo tipo di consapevolezza: la fotografia non è più utilizzata come strumento per raccontare i luoghi, descriverli o documentarli, ma come mezzo per misurare il proprio rapporto con il mondo esterno e di conseguenza se stessi e l’altro. Molto velocemente i fotografi eleggono la dimensione mondiale e globalizzata a spazio di ricerca, con la consapevolezza che ora l’immagine ha un ruolo sociale e culturale molto più evoluto e disincantato. Viaggiare e cercare lontano nuove visioni sembra il frutto di un’esigenza impellente di staccarsi non solo dal proprio ruolo d’origine, ma per testare in presa diretta quei fenomeni i cui effetti collaterali ci ritroviamo a vivere quotidianamente nella nostra realtà4. Ne è un esempio significativo il progetto “4Flight” di Armin Linke (Milano, 1966) per la 7ma Mostra Internazionale di Architettura (2000), in cui le fotografie, stampate su un migliaio di cartoncini formato cartolina, erano raccolte in una grande vasca da dove il pubblico poteva prenderle e portarle via. Per questo lavoro il fotografo segue criteri estetici, antropologici e sociologici con l’obiettivo di dare una testimonianza articolata e complessa dell’attuale stato del pianeta. Accanto a opere ingegneristiche e architettoniche, a documentazioni di attività scientifiche e tecnologiche, appaiono distese naturali incontaminate, paesaggi deserti e minimali.
Un altro fotografo che, alla fine degli anni Novanta, ha dato adito a questa “rottura della cornice”, nel quadro della fotografia italiana di paesaggio, è Francesco Jodice (Napoli, 1967). In progetti, o archivi per accumulo tutt’ora aperti, quali “What We Want” (1995-in progress) — un atlante di comportamenti sociali e urbani attraverso 52 metropoli — “The Secret Trace” (1997-in progress) — pedinamenti fotografici di persone sconosciute in diverse città del mondo — o il più recente “Citytellers” — una serie di “docu-fiction” che toccherà, tra le molte città coinvolte, San Paolo, Stoccolma e Los Angeles — Jodice è interessato a mettere in evidenza, in modi alternativi, le modificazioni sociali. Il suo approccio interdisciplinare (per i suoi progetti Jodice coinvolge sociologi, architetti, urbanisti) ha come obiettivo, attraverso la fotografia e la produzione di film, quello di mettere a fuoco come la società sta cambiando.
Differente come esiti, ma altrettanto significativo per individuare i progressivi mutamenti della fotografia di paesaggio, è il lavoro di Massimo Vitali (Como, 1944). Per lui la fotografia di paesaggio è imprescindibile dall’indagine sui luoghi come centri di aggregazione sociale. In queste grandi visioni corali, riprese da un punto di vista rialzato che consente una visione panoramica a campo lungo, si consumano piaceri, paradossi, tristezze, e si evince come il paesaggio diventi schermo davanti al quale il fotografo narra i grandi riti collettivi. E se in Vitali l’uomo e il paesaggio sono uniti inscindibilmente, nel lavoro di Marina Ballo Charmet (Milano, 1952) dell’uomo restano solo tracce minime, segni sparsi e spesso invisibili a documentarne l’indeterminatezza e l’inconsistenza. Nella serie di lavori “Il limite” (1989), “Con la coda dell’occhio” (1993-1994) e “Rumore di fondo” (1997) ci viene restituito un paesaggio minimo fatto di dettagli: di un campo, di un marciapiede, persone e luoghi indeterminati, senza tempo e spazio definiti. Qui la fotografia registra una sorta di “distruzione” del soggetto, partendo a descriverlo dal fondo, dai particolari irrilevanti e senza un contesto riconoscibile.
Nell’ultimo decennio, fino alle attuali produzioni fotografiche, la visione del paesaggio è poliedrica e difficilmente definibile. Alcune ragioni per spiegare questo mutamento le dà Roberta Valtorta: assistiamo a un progressivo nomadismo, a una profonda perdita dell’identità dei luoghi, o più esattamente alla nascita di identità altre. Valtorta constata come in ambito fotografico un concetto unitario di paesaggio diventa impossibile o irrimediabilmente difficile da definire in maniera univoca5. I fotografi, consapevoli della quasi impossibile registrazione di un paesaggio instabile e indefinito, optano per lo studio di frammenti, scelgono pezzi di scena da sostituire ai grandi racconti, preferendo un tipo di analisi spesso episodica dove l’oggetto di riflessione muta continuamente.
Ne è un esempio il lavoro di Teodoro Lupo (Treviso, 1975): nel lavoro “Von hier an Blind” (“Da qui come cieco”, 2005-2006) o, più ancora, in “Schiarirsi le idee (indicazioni sbagliate per)” — progetto iniziato nel 2007 e tutt’ora in corso — il paesaggio diventa spazio di riflessione più che spazio fisico, dove constatare quanto le nostre conoscenze, pregiudizi, immagini interiori influenzino il “lavoro” dei nostri occhi. Se in questa serie è evidente l’allontanamento del giovane fotografo dalla grande tradizione della scuola di paesaggio, questa lontananza si riduce in altri progetti, quali “Due” (2005) e “Radici d’acqua” (2003), dove il paesaggio torna come protagonista di un’indagine analitica del territorio. Il suo modo di procedere, fatto di lunghe osservazioni mirate per cogliere pochi, essenziali frammenti, può essere accostato a quella “pazienza del vedere”6 che Paolo Costantini attribuiva a Guido Guidi, non a caso uno dei fotografi a cui spesso molti suoi lavori sono stati accostati.
Questo oscillare tra la storia della tradizione ed esperienze più libere e meno legate ai luoghi si ritrova anche in Marcello Mariana (Lecco, 1977). Anche lui come Lupo utilizza il mezzo fotografico in modo libero, aprendo a ventaglio i suoi codici e facendo del suo statuto di “arte della rappresentazione” un concetto elastico complesso da definire. Un lavoro che più di altri ci sembra significativo è la ricerca da lui attuata per il “Premio Fotografico Atlante Italiano 007 – Rischio Paesaggio”, “Alpine Wanderer”. Il fotografo elegge l’arco alpino a soggetto delle sue riflessioni allo scopo di documentarne la sublime grandiosità e le violente contraddizioni: accanto alla vastità della visione naturale ecco comparire l’irruenza umana, sia essa rappresentata da eliche eoliche, grandi palazzoni, da una diga o da una strada.
Le tematiche ambientali diventano sempre più spesso indissolubilmente legate alla fotografia di paesaggio, come testimonia il lavoro di Francesca Lazzarini (Lussemburgo, 1976) “Abusivismi”. Il suo lavoro è indirizzato a destabilizzare quel tipo di fotografia impiegata per alimentare una specifica e ingannevole idea di mondo. Da qui il suo disinteressarsi all’aspetto strettamente estetico delle immagini per concentrasi invece sulla loro matrice di critica sociale, con temi quali l’abusivismo, il caro affitti, il turismo di massa, il diritto all’abitare.
Al marginale, all’escluso o semplicemente al “brutto” è anche rivolta la ricerca di Marcello Cena (Bari, 1973), che in una serie di fotografie scattate nelle città albanesi di Kamza e Barat dal titolo “Paesaggio fragile”, suggerisce l’idea di un paesaggio urbano destrutturato, povero e precario. In queste immagini è evidente un tema caro ai maestri della scuola di paesaggio: la restituzione “in stile documentario” delle trasformazioni sociali e urbanistiche di una città, senza mai cadere nella metafora e nel retorico7. In Cena, ma anche in molti altri fotografi, è da notare la presenza della figura umana, elemento quasi totalmente assente nella fotografia di paesaggio di quasi trent’anni prima. Come abbiamo visto in molti lavori degli anni Novanta, con Jodice, Linke, Vitali, ma potremmo notare altre esperienze, tra cui quelle di Tancredi Mangano, Paola Di Bello e Walter Niedermayer, solo per citarne alcune, ritorna il corpo in relazione al paesaggio, diventando un’interfaccia per comunicare con lo spazio, o consustanziale al paesaggio stesso. Allora, anche se prive di presenze umane, le case, gli agglomerati urbani del nord e sud del mondo, con la loro sporcizia, i detriti, le zone degradate o i centri a disumana misura d’uomo, sono lo specchio di un tempo, di un vivere “desiderante”, metafora di uno stile di vita. Significativo in questo senso è l’approccio di Domingo Milella (Bari, 1981), che parte dalla sua città d’origine per interrogare il paesaggio come luogo in cui si solidificano, per cumulazione, le vite dei suoi abitanti. Milella cerca di immortalarne il magma di scelte che portano alla creazione di un costruito che si oppone al naturale, di territori dove passato e presente si scontrano in quelle che lui chiama “crudeli evidenze”. Ecco allora che acquista importanza in quest’ottica il senso di fare fotografia oggi, che, come trent’anni fa, cerca di comunicare con quello che resta il linguaggio più diretto ed efficace, le immagini. Magistrale è in quest’ottica il lavoro di Richard Sympson (Marco Trinca Colonel, Milano, 1980 e Cosimo Pichierri, Taranto, 1976). “Palmo a palmo #3” è un collage di una serie di scatti zenitali, in scala 1:1, per ottenere un’unica fotografia frutto di infiniti punti di vista. Questo meccanismo, che nega il punto di vista unico e rifiuta la prospettiva come gabbia di percezione della realtà, ha come obiettivo il ribaltamento delle strutture linguistiche della fotografia in un’epoca di ipervisibilità. L’ansia documentaristica delle immagini risulta allora imprigionata in un iperdocumentarismo che finisce per non documentare altro che se stesso.