Vice versa. Un titolo che annuncia un progetto curatoriale preciso, con un padre nobile e titolato come Giorgio Agamben. Fin qui, il Padiglione Italia di Bartolomeo Pietromarchi non faceva una piega, sostenuto anche dall’annuncio dei 14 invitati a supportare con le loro opere il dualismo dell’animo italiano. Ma una volta arrivati in fondo all’Arsenale, con gli occhi pieni del Palazzo Enciclopedico, insieme ai padiglioni cileno, libanese e turco, qualcosa si è inceppato: la proposta è apparsa sicuramente dignitosa, ma un tantino confusa. Come mai? Innanzitutto, 14 artisti sono troppi, in una Biennale dove nei padiglioni vige la regola less is more. Impariamo anche noi a scommettere su numeri limitati, come fece nel 2007 Ida Giannelli, con la coppia Penone-Vezzoli. Una proposta secca e precisa, aumentata a 20 (Luca Beatrice-Beatrice Buscaroli) 200 e oltre (Vittorio Sgarbi) e ora 14 (Bartolomeo Pietromarchi): sempre e comunque troppi per essere autorevoli e affermativi. Secondo punto: le opere. Nonostante tutti i 14 artisti invitati siano validi e del tutto meritevoli, i risultati sono apparsi in molti casi al di sotto delle aspettative, e quasi sempre per accoppiamenti non riusciti. I casi più evidenti? L’opera-performance di Marcello Maloberti era eccessivamente affollata e non del tutto leggibile, mentre la cupola di Flavio Favelli appariva soffocata dallo spazio e meno intrigante di altri lavori simili ma meno “ornamentali”. L’installazione di Francesco Arena, concettualmente ben concepita ma visivamente troppo simile a elementi di sostegno del padiglione, confinava in un angolo la performance di Fabio Mauri, riducendone il valore evocativo. Se Piero Golia ha realizzato un’opera forte, essenziale e ricca di ironia pur non essendo didascalica, la performance di Sislej Xhafa, che ha al suo attivo partecipazioni alle passate Biennali di alto respiro, appare pretestuosa e poco incisiva, così come la bara rivestita di schedine dell’Enalotto.
Assai più interessante il dialogo tra Giulio Paolini e Marco Tirelli, dove il tema dell’illusione è stato trattato dai due artisti in maniera differente ma complementare: se la prospettiva a parete di Paolini appariva forse un po’ fredda, la Wunderkammer di Tirelli appare come una proposta spiazzante e poetica, legata al disvelamento di una processualità creativa coraggiosa ed efficace. Buona prova anche di Francesca Grilli e Massimo Bartolini, nonostante la prima avesse puntato su un gigantismo di matrice poverista forse non del tutto necessario, mentre la salita sul tratturo sterrato di Bartolini, accompagnato dalle parole di Giuseppe Chiari, invitava a una riflessione interessante sul senso dei gesti quotidiani più banali, come l’azione del camminare. Intrigante l’odore di Luca Vitone all’interno dell’opera di Luigi Ghirri: il suo storico Viaggio in Italia è stato proposto quasi come una “mostra nella mostra”, forse un filo troppo ingombrante rispetto alle altre ma di altissima qualità. Infine, mi ha lasciato perplesso il rapporto tra Elisabetta Benassi e Gianfranco Baruchello, che ha appoggiato la sua installazione sul pavimento della Benassi con i mattoni di cotto sconnessi e irregolari, ma carichi di significati etici e politici, quasi a voler conferire un aspetto più intimo all’ufficialità del padiglione. In conclusione mi auguro che questo padiglione coincida con un momento di passaggio: usciti dal terribile e caotico tsunami dell’edizione passata, Bartolomeo Pietromarchi ha riportato la partecipazione italiana sulla strada giusta. In futuro anche l’Italia avrà il coraggio di puntare su un artista ma veramente significativo? Mi auguro di sì, perché l’arte italiana si merita di essere rappresentata nella maniera migliore possibile.