Massimiliano Scuderi: Vorrei innanzitutto partire da alcune parole che hai pronunciato in un altro contesto, ovvero alla Facoltà di Architettura di Pescara, due anni fa. In quell’occasione avevi detto: “Forse il problema di fondo della mia carriera è stato quello di aver capito di non essere dotato di alcuna abilità particolare; quando mi sono spostato dalla scrittura all’arte, poteva essere un’idea senza senso, perché mi rendevo conto di non essere capace di disegnare, né di dipingere o scolpire. Però era un momento in cui si iniziava a usare il termine ‘arte concettuale’. Ciò permetteva di riconoscermi come qualcuno in grado di avere un’idea vaga di qualcosa, da poter mettere in atto”. Con questa premessa sei passato dallo spazio della scrittura allo spazio dell’architettura e quindi nel 1988 hai aperto lo studio che porta il tuo nome. Puoi spiegare come funziona il tuo lavoro, ora che è diventato d’equipe?
Vito Acconci: Durante gli anni Ottanta mi resi conto che il mio lavoro stava cambiando, andava verso un’altra direzione, verso cose, spazi e luoghi che potevano essere utilizzati dalla gente, e dissi a me stesso che il problema non riguardava più l’arte, ma l’architettura. Alla fine degli anni Ottanta fondai l’Acconci Studio, che è cominciato, e lo è ancora, come una realtà costituita da un gruppo di persone che lavorano insieme. Tutti i suoi componenti, a eccezione di me, sono architetti o hanno un background da architetti. Iniziai quest’esperienza per due motivi fondamentali: volevo fare architettura, ma non sapevo in che modo, e quindi avevo bisogno di lavorare con degli architetti. In qualche misura è simile a quello che tu dicevi descrivendo la mia situazione alla fine degli anni Sessanta: volevo fare arte, ma non sapevo come. Ma c’era un’altra motivazione che mi spingeva a lavorare in gruppo. Mi convinsi che se avessi continuato a lavorare da solo, l’esito sarebbe stato un lavoro privato. Insomma se qualcosa nasce privata, alla fine rimane privata. E mi resi conto che l’unica maniera per ottenere uno spazio pubblico era quella di farlo nascere dall’idea di un gruppo, di quattro o cinque persone che pensano insieme. Una cosa pubblica nasce con il numero tre: una persona è solista, la seconda persona rappresenta una coppia o un’immagine riflessa, con la presenza di una terza persona si crea un dibattito. Ciò che è pubblico nasce probabilmente con una discussione. Il modo di lavorare nello studio è esattamente questo, cioè pensare insieme. Io non ho un’idea e gli altri mi devono seguire, si pensa insieme…
MS: Ma allora mi viene da chiederti se il fatto di utilizzare un linguaggio come quello dell’architettura, come hai appena detto, consista nel lavorare con architetti, con tecnici…
VA: Lavoro con chi, scusa…?
MS: Architetti.
VA: Sì, ma non sono tecnici, sono pensatori, un gruppo di persone con idee. È il contrario del lavoro di un tecnico. Loro non seguono le mie idee, ma hanno delle idee. Anzi il lavoro può determinare il cambiamento di atteggiamento, può cambiare le loro menti, le loro convinzioni. Quindi è il contrario.
MS: Allora forse è il caso di approfondire quello che stai dicendo, direttamente attraverso la descrizione dei risultati di questo lavoro di equipe, per capire meglio cosa c’è dietro.
VA: I lavori che mostrerò oggi sono tutti progetti fatti durante gli anni 2000. Voglio iniziare da questi progetti perché noi pensiamo che l’architettura inizi con il corpo. L’abito è la prima architettura: la pelle copre lo scheletro, quindi gli abiti possono coprire la pelle. Per esempio, abbiamo disegnato il prototipo di un ombrello, ispirati da una piccola rivista di moda di New York. Umbruffla nasce dalla combinazione di alcuni concetti quali piegare, increspare, indossare, applicati a un ombrello, con la particolarità che la luce tra interno ed esterno del materiale è differente: da dentro si può vedere chiaramente fuori, mentre sull’esterno è visibile solo il riflesso della città. Inoltre, ci sono alcuni vantaggi in più rispetto ai comuni ombrelli: per esempio, il fatto di avere le mani libere o di poterlo avvolgere intorno al corpo, o ancora di portarlo facilmente in due. È auspicabile che si riesca a piegarlo come un origami e a ridurlo a una dimensione non più grande del proprio pugno.
MS: Questo progetto è stato realizzato o è rimasto solo un prototipo?
VA: Quello che vedi proiettato è tutto ciò che abbiamo. Molti progetti rimangono sulla carta, tanti progetti di architetti naturalmente non vengono realizzati… Ma, un attimo, voglio spiegare meglio perché ho lasciato l’arte per passare al design e all’architettura. Fondamentalmente perché a un certo punto mi sono accorto di non volere più spettatori e di avere bisogno di utenti, di abitanti, di partecipanti. In quel periodo il mondo del design, della progettazione in genere, aveva già utenti e quindi mi chiesi che senso avesse fare tutto ciò in arte, se esisteva un campo che già fruiva di utenti e di abitanti. Quello che mi è piaciuto molto, spostandomi verso il design e l’architettura, è stato che il design ha a che fare con il tempo più di quanto non avvenga in arte. Ciò che si realizza in architettura non può essere utilizzabile per tutto il tempo, ma deve essere rinnovato, l’arte invece tenta di conservare. Per me, infatti, è importante l’idea della riconoscibilità del tempo ed è altrettanto importante capire che non c’è ragione che una cosa fatta nel Rinascimento continui a sembrare tale, in quanto le persone che la stanno guardando ora non vivono nel Rinascimento. Forse il grande merito dell’architettura, e che mi interessa veramente, sta nel fatto che dovrà essere sostituita. Un’altra cosa che m’interessa dell’architettura e del design è che hanno a che fare con la vita quotidiana: possiamo realizzare un bicchiere, una bottiglia, una casa ecc. Probabilmente il passo successivo, dopo gli abiti e i prodotti, sono i mobili. Una volta che il corpo è avvolto da un abito può essere incluso, per esempio, in una poltrona. Come è avvenuto con una seduta per esterni, realizzata nel 2001, con cui abbiamo provato a concepire una panchina sul modello del nastro di Moebius, dove l’esterno si attorciglia verso l’interno, per cui il retro della panchina si torce per diventare il piano di seduta. Puoi sederti sull’esterno dell’anello e, se ti muovi di poco, ti ritrovi all’interno dell’anello stesso.
MS: I progetti di cui stai parlando sono sicuramente definibili come oggetti che si possono utilizzare. Che relazione c’è tra questi progetti e le sculture del passato? È una dimensione completamente abbandonata o rimane, anche se in maniera residuale?
va: Io spero che non siano oggetti. Gli oggetti “probabilmente” possono essere usati, mentre gli strumenti si utilizzano. Appena una scultura viene usata, non è più arte, penso sia un campo differente. Comunque, abbiamo provato a fare altre versioni della panchina di Moebius, come il sofà di Moebius. Un esempio invece di interior design è un negozio di abbigliamento che abbiamo creato nel 2003 a Tokyo, per la compagnia United Bamboo. Volevamo realizzare un negozio che fosse soft come un abito, come la pelle, così il materiale fondamentale con cui abbiamo lavorato sono stati dei teli di pvc, generalmente usati come schermi per le proiezioni video. Questo materiale è morbido, lo abbiamo utilizzato come una sorta di sistema “spingi e tira”, in modo da generare i volumi dove esporre i prodotti.
MS: Ma allora i progetti possono partire anche dal tipo di uso che volete fare di un materiale, oppure partite da un’idea e successivamente scegliete quale materiale utilizzare, in relazione quindi al tipo di sensazione tattile o visiva, in base alle suggestioni che scaturiscono dal materiale stesso?
VA: C’è una relazione visiva con il materiale, ma non è solo quello. Intanto, il motivo per cui abbiamo utilizzato il pvc è di poterlo tirare e spingere, ma l’utilizzo deriva anche dal fatto che è un materiale adatto alle videoproiezioni. Per esempio, nel negozio non abbiamo messo luci esterne, tutte quante sono contenute all’interno dei volumi in pvc. Lo spazio a disposizione era veramente piccolo, circa 5 metri per 12, quindi sapevamo di doverlo utilizzare al meglio. Inoltre c’era un muro inutile: lo abbiamo rimosso e abbiamo creato, con un cristallo curvato, un’alcova esterna al negozio dove appendere gli abiti. Quello che ci ha colpito in Giappone è stato il fatto che, soprattutto le teenager, ci tengono a mostrare l’un l’altra il proprio modo di vestire. Non voglio soffermarmi ora sull’esterno dell’edificio, troppo simile per alcuni designer del gruppo alle normali abitazioni giapponesi, cosicché lo abbiamo ricoperto di una maglia metallica, che ne ha cambiato il look, con gli spazi delle finestre spinte dentro o fuori attraverso la superficie metallica. L’edificio è diviso in due piani: il primo è il negozio, in quello superiore ci sono gli uffici e la facciata è costituita da uno schermo. In questo modo, se ti piace, dopo aver provato gli abiti di United Bamboo puoi spingere un bottone e apparire come modello sullo schermo. Dagli interni passiamo a un progetto di abitazione che stiamo seguendo ad Atene, per due fratelli che desiderano vivere accanto. Non ero mai stato prima ad Atene, mi ha colpito molto l’intensa vita sui balconi delle case. Abbiamo concepito un progetto per cui il tetto della casa dell’uno diventa il balcone dell’appartamento dell’altro. Questo è un esempio di abitazione fruibile in tutti i suoi elementi. Di solito con lo staff progettiamo architetture che sono parte del paesaggio, ma in questo caso c’è la ricerca di una tipologia di casa autonoma, chiusa in se stessa.
MS: In che misura le condizioni esterne al progetto condizionano l’iter progettuale e quanto incide la committenza? Mi riferisco all’esempio che hai appena fatto, sul concept dell’edificio.
VA: Certo che incide, ma solitamente il cliente collabora. Quello che ci aspettiamo dal progetto è che, idealmente, il cliente sia anche un nostro collaboratore, poiché è da lui che arriva l’idea primaria. Ciò significa accettare passivamente le richieste del cliente? Forse non è necessario, in quanto ciò che si stabilisce è piuttosto una conversazione. Probabilmente non è una buona idea per noi collaborare con lui e viceversa. Quello che conta è evitare di realizzare lavori inutili. Non abbiamo bisogno di fare questo, voglio dire, noi facciamo questo, è il nostro lavoro. Abbiamo costruito così tanto che, chissà, molte strutture in fondo non erano necessarie. Dunque non sempre abbiamo ragione e non penso che tutto quello che è stato costruito sia buono. Ma voglio parlare di un altro esempio. Si tratta di un progetto realizzato a Graz, in Austria. Ci è stato chiesto di attraversare un fiume che corre lungo la città fino a un’isola, e di intervenire lì creando una struttura che avesse tre parti: un teatro, un caffè e un’area di ricreazione. Così siamo partiti dall’idea convenzionale di teatro, dalla forma di una ciotola, che poi abbiamo rovesciato facendola diventare una cupola. Quindi ora la struttura ha un teatro, una cupola che contiene lo spazio di un caffè e una zona centrale curva, un’area di ricreazione. Nella cupola-caffè abbiamo cercato di riprodurre l’interno come l’esterno, si cammina sotto un canapè, al di là del vano della porta d’ingresso, e poi il canapè s’incurva verso il basso per circoscrivere il salone all’interno della cupola e dei suoi confini. Il caffè è stato costruito usando una moltitudine di banconi, uno sopra l’altro, fatti di gomma. Perché tutto questo? Perché pensiamo che quando si è in tanti a bere, potrebbe essere più facile, con vari banconi uno sull’altro, avere un posto libero dove poggiare il proprio bicchiere. Dunque abbiamo affrontato gli aspetti pratici. Per esempio, molto spesso abbiamo bisogno di avere delle ringhiere. Parlando di praticità, ci sono le regole, che non necessariamente amo o condivido sempre, ma sono lì, così come le ringhiere che permettono alle persone di non cadere giù. Come dire che se hai uno specchio, allora hai un riflesso, se hai un’altezza, allora hai delle ringhiere. Ma come possiamo avere delle ringhiere, senza che esse stesse si definiscano tali? Una ringhiera è simile a una prigione. Forse essere designer significa anche essere più inventivi di quanto si pensi; questa è la dimensione dell’arte, ma nella vita reale bisogna pensare alla praticità. Infatti non puoi immaginare semplicemente di fissare una ringhiera, di unirci una luce, ma puoi crearne una che diventi un posto a sedere. Vorrei dividere le immagini in due sezioni: la prima mostra come il progetto parta dal corpo e quindi vada all’esterno; la seconda riguarda il modo in cui le condizioni esistenti vengono sovvertite da alcune azioni. Fondamentalmente questa parte si basa sulla nozione di spazi che intrappolano, che rinchiudono. Come per il progetto Klein Bottle, contemporaneo al progetto della panchina di Moebius. Per alcuni anni sembrava che ci fosse la reale possibilità di costruirlo, come ben sai, perché stavi partecipando al lavoro. Per intendersi, l’immagine della bottiglia di Klein è quella di una normale bottiglia, il cui collo si estende sopra il corpo della bottiglia stessa, continua fuori, e quindi rientra all’interno per fondersi insieme.
MS: È una declinazione del modello di Moebius, giusto?
VA: Sì. Abbiamo pensato che potesse essere adatto ai bambini. Ci hanno chiesto di realizzare un’area ricreativa per loro e abbiamo pensato che così funzionasse perché, piuttosto che avere un collo solo, se ne potevano avere quattro; in questo modo le persone hanno più possibilità di scelta. Forse in architettura è difficile, se pensi a uno spazio di design, prefigurarsi necessariamente anche come la gente si comporta al suo interno: in pratica è difficile avere una visione totalitaria. Ovviamente noi non vogliamo questo, vogliamo spazi che le persone possono modificare per se stesse, siamo architetti in grado di apprezzare questo aspetto. Nel contempo diamo alla gente la possibilità di scegliere. Consideriamo di avere un percorso, una serie di percorsi: forse ci si può perdere, ma almeno si può scegliere. Tornando al Klein Bottle Playground, abbiamo pensato che se avessimo reso la superficie trasparente, perforandola nel mezzo con una serie di buchi, i bambini che si fossero arrampicati all’esterno si sarebbero ritrovati faccia a faccia con quelli che si arrampicavano all’interno. Puoi scivolare dall’interno all’esterno e viceversa. Credo che alla fine degli anni Novanta noi, e molti altri architetti, fossimo ossessionati in un certo senso dalla nozione di “spazio topologico”, come il nastro di Moebius e il Klein Bottle. Uno spazio topologico è uno spazio malleabile; è molto differente dalla geometria euclidea, dove una sfera rimane sempre una sfera; nella topologia, la sfera mantiene la stessa quantità di materia, ma può assumere forme diverse, può cambiare. Ciò attrae molto i designer. Un’altra cosa che li attrae è che se posizioni una formica in uno spazio topologico, in un posto che può sembrare interno o esterno, questa formica, senza le ali, e dunque senza la capacità di volare, comunque si muove dall’interno verso l’esterno e viceversa. Questo ci interessa molto, così come interessa ad altre persone, perché se un qualcosa può spostarsi così facilmente da una parte all’altra, allora puoi pensare che, forse, il privato può diventare pubblico e viceversa. Dunque, ci interessa davvero la nozione di ciò che è capace di mutare. Allo stesso tempo ci si può chiedere come avvenga effettivamente che qualcuno dall’esterno entri all’interno dello spazio topologico e dall’interno esca all’esterno. Lo spazio topologico è uno spazio completo, così abbiamo pensato al modo in cui interferire con questa idea di completezza, di perfezione.
MS: Questi progetti propongono sempre una compenetrazione con lo spazio: tra l’uomo e lo spazio, tra l’architettura e lo spazio. Però sono progetti abbastanza unici, relativi a musei, aree metropolitane. Per un’architettura che sia di “massa”, che permetta anche questa libertà di scelta, come immagini la possibilità di sfruttare lo spazio e di poterlo modificare?
VA: Prima di tutto vorrei dire che c’è un ampio numero di architetti, al giorno d’oggi, che sta provando a fare architettura, così come stiamo facendo noi, non siamo i soli. Forse i progetti non verranno tutti necessariamente realizzati, ma forse alla fine accadrà anche questo. Cosa immagino? Idealmente immagino che una persona entri in una stanza dove probabilmente non c’è nulla. Questa persona è stanca e vuole sedersi, può appoggiarsi al muro e il muro inizia a rientrare, diventando simile a una sedia. Poi la persona non è più stanca, si rialza fino ad assumere la posizione originaria ed entra un’altra persona, che non per forza ha gli stessi desideri. Non penso che qualcuno sappia esattamente cosa fare, ma molta gente ora può spingersi in varie direzioni. Esattamente non lo so, ma allo stesso tempo posso immaginare chi sarà l’architetto del futuro, anche se credo che non sarò vivo per verificarlo, ma penso che l’architettura del futuro sarà mobile. Suppongo che uno degli indizi sia che la gente, in varie regioni del mondo, è sconvolta dall’immigrazione, e quando le persone sono così sconvolte significa che qualcosa sta per cambiare. Probabilmente non ci saranno più così tanti immigranti perché non esisteranno più gli Stati, non ci saranno più confini nazionali e così la gente potrà spostarsi da un posto all’altro. Forse il modello del futuro sarà la tartaruga. La tartaruga non deve mai tornare a casa, trasporta la casa ovunque con sé; quindi penso che l’architettura del futuro sarà un’architettura trasportabile.
MS: Così come Jean-François Lyotard, in un’intervista, definì l’architettura e l’urbanistica del futuro qualcosa destinata a mutare, case per popoli nomadi, in continuo spostamento, sovvertendo l’idea di architettura come entità fissa, fondata, amovibile appunto…
VA: Un altro indizio del futuro è il computer, oggigiorno lo strumento più importante, che rappresenta uno strano mix: a prima vista è così privato, ma al tempo stesso, per l’uso che ne facciamo, è totalmente pubblico. Il mix tra pubblico e privato è probabilmente quanto accadrà in futuro. Sì, può esserci questa sfera privata, una sorta di capsula che potrebbe permetterci di fare più cose. Un altro indizio è che molta gente va in palestra, non necessariamente lo fa per il fisico, ma è certo che il nostro corpo sarà sempre più un miscuglio di umano e di robotico. E non penso ci siano delle resistenze perché crediamo di poter fare ancora di più: quattro braccia, cinque braccia, anche se questo non è proprio umano. Ma l’aspetto più importante dei computer è che permettono di selezionare. Nel mondo occidentale c’è bisogno di una profonda conoscenza delle cose, e dovremmo chiederci se questo è importante, ovvero avere una profonda conoscenza delle cose che ci circondano; puoi conservare i libri in un magazzino o tenerli sugli scaffali della libreria, l’importante è che siano lì quando hai bisogno di andare a fondo alle cose.