Wangechi Mutu è stata invitata da Okwui Enwezor alla mostra internazionale “All The World’s Futures”, un percorso espositivo unico pensato per la 56ma edizione della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, dal Padiglione centrale dei Giardini fino all’Arsenale. Tra i 136 nomi scelti da Enwezor, provenienti da 53 Paesi diversi, c’è anche Wangechi Mutu, per la prima volta in una biennale italiana ma già di casa a Venezia. L’artista, infatti, per la seconda volta, esporrà anche a Il Capricorno, storica galleria gestita da Bruna Aickelin in San Marco che, da maggio, ospiterà per la seconda volta alcuni suoi nuovi lavori (la prima era stata una mostra nel 2011). Mutu, nata nel 1972 a Nairobi, vive e lavora a New York. Le sue opere, realizzate con e su mezzi diversi, tra cui linoleum e carta, inchiostro e colori tenui, rispecchiano il suo stile ormai famoso e riconoscibile. Nel 2010 l’artista si è aggiudicata il celebre Deutsche Bank Prize Artist of the Year. Mutu ha esposto in personali e collettive in diverse sedi importanti, sia gallerie private che musei istituzionali, da Miami (Museum of Contemporary Art) a Sydney passando per Montreal, San Diego, Londra, Vienna, Chicago, Francoforte e Washington. Tra le esposizioni più recenti, nel 2014 ricordiamo la mostra collettiva allo Smithsonian National Museum of African Art e le personali da Victoria Miro a Londra e al Museum of Contemporary Art, North Miami. A Venezia, oltre ai suoi famosi collage paintings, esporrà anche video e sculture, come ci racconta in questa intervista che precede il suo arrivo in laguna.
Valentina Bernabei: Oltre ai soggetti che scegli di raffigurare, molto spesso figure femminili a metà tra mitologia, realtà e fantasia, credo sia importante il fatto che siano collage. I tuoi lavori sono come manufatti, creati con forbici, carta e altri materiali fisici, che vanno oltre la pittura. Come li scegli? Da cosa parti?
Wangechi Mutu: Parto da un’idea, vaga o concreta, o da un sentimento che ho per il mondo, per come lo conosco io, e poi cerco di immaginare un “fantasma”, un personaggio, una cosa che sia in grado di rappresentare quelle difficili e complesse situazioni a cui penso, condizioni a cui non riesco a smettere di pensare. Trovo un posto, un luogo, un teatro per permettere a queste particolari idee di venire fuori. La base del mio lavoro è quella di portare in vita l’immaginario e l’inimmaginabile. In questo modo, vado alla ricerca nell’antico vaso della mitologia e delle fiabe, potremmo definirlo il regno spirituale, attingendo a figure e idee usate per rappresentare le condizioni umane e le mancanze in forma narrativa. Sono una che pensa molto ma con un approccio pratico, usando le mani. I miei pensieri si materializzano mentre sto lavorando; collego i puntini mentre sto tagliando, o incollando, o cucendo, mettendo insieme le varie entità che creo. La vera essenza di un materiale e un oggetto, per venire fuori, deve essere sottoposta a vari momenti di lavorazione e cambiare anche forma, in modo da lasciarmi immaginare ed elaborare la sua trasformazione.
VB: Ho sfogliato il catalogo dell’ultima mostra alla galleria Victoria Miro di Londra. Oltre ai collage con le tue tipiche figure, sia femminili che fantastiche, che abitano ogni pezzo, ci sono video e sculture. Sembra che ogni opera ruoti intorno al ruolo centrale della donna, è così?
WM: La mia attenzione alla figura femminile è, in alcuni casi, un impegno voluto per sottolineare lo squilibrio di genere, e mettere l’accento sulla condizione femminile. Ma il mio parlare di femminilità va oltre i movimenti femministi e invece risale a una credenza molto essenziale, quasi istintiva: ovvero che ci sia, dentro ognuno di noi, una Madre interiore. Ci sono certamente fattori biologici che spiegano questa idea della nostra femminilità intrinseca. Ma sono anche convinta che la parte della vita che più si basa sul sostegno, la parte rigenerativa, creativa e intelligente della nostra mente, deve essere intrinsecamente femminile.
VB: Hai frequentato il master in Fine Art a Yale. Che cosa hai imparato lì? Che ricordo hai di quel periodo?
WM: Sì, è stato importante per me! Mi ha molto aiutato a crescere come artista. È stata un’esperienza difficile. Io li chiamo i miei anni di addestramento all’arte. Mi ricordo che lavoravo duramente per tutto il tempo ed ero sempre stanca. C’era un piccolo gruppo che scelse scultura, quindi il livello di competitività, unito alla mancanza di leadership — il dipartimento era in cerca di un nuovo capo a quei tempi — ci ha resi piuttosto tesi, un gruppo senza capo. C’era anche una buona quantità di comportamenti tipici da “Ivy League” e squilibri razziali/culturali che hanno evidenziato le sensazioni di ingiustizia generale. Ci sono state anche alcune cose buone però. Il mio studio era eccezionale e ha stimolato tante delle mie più grandi idee e opere. Ho anche incontrato alcuni dei docenti più suggestivi e persone in molte altre scuole e dipartimenti. Gente come Michael Veal, John Szwed, Kelly Jones, che avevo conosciuto in precedenza, Sam Messer, l’unico e solo Robert Farris Thompson. C’erano anche grandi mostre e performance. Tricky è venuto e ha suonato nella nostra scuola, e Ralph Lemon ha ballato nel teatro di New Haven. Nel complesso, non ho rimpianti per il mio tempo trascorso lì. Era solo estremamente difficile.
VB: Lavori con le gallerie più importanti del mondo. È una cosa rara per un’artista donna collaborare con queste importanti gallerie, per di più gestite da galleriste donne. Che significato ha questo per te?
WM: Susanne Vielmetter, a Los Angeles, è stata la prima galleria a rappresentare il mio lavoro. Prima avevo una galleria di New York. Ha iniziato la sua avventura con me e abbiamo fatto un magnifica mostra sulla West Coast nel suo primo spazio. Nello stesso periodo, Victoria Miro Gallery di Londra era molto entusiasta di avermi tra i suoi artisti e così abbiamo iniziato a lavorare insieme subito dopo. Ho trovato Barbara Gladstone quando ero incinta della mia prima figlia, e quando molte altre cose cominciavano a farsi chiare, anche Gladstone Gallery ha cominciato a rappresentare il mio lavoro nella sua galleria dal 2009. Sono tutte e tre straordinarie realtà con tre donne incredibili al timone.
VB: Cosa stai preparando per la Biennale?
WM: Sia scultura, She’s got the whole world in Her (2015), in cui una figura pone sul suo stomaco un globo ruotante tra le sue mani, fissandolo, che un film di animazione The end of carrying All (2015), dove una donna porta un fagotto sulla testa mentre cammina verso una scarpata. Le cose che ha trasportato cominciano a cambiare, e il mondo intorno a lei risponde. Si arriva a un punto in cui sembra che tutto sia destinato a fallire… Non mancheranno i classici collage painting. Ci sarà Forbidden Fruit Picker (2015), un personaggio cyborg — prova che raggiunge il — giustamente chiamato — frutto della conoscenza.
VB: E per la mostra personale nella galleria Il Capricorno?
WM: Mi sono di nuovo concentrata sul ritratto come significante poetico della nostra comune umanità. Il volto, la postura, l’espressività di un gesto… ciascuna di queste qualità e componenti si combinano per inviare messaggi e costruire storie sui nostri conflitti e le esperienze condivise. Sono opere di piccole dimensioni, ma molto speciali per aver inserito, ancora una volta, qualche nuova combinazione di materiale e gesti.