Mai come oggi la domanda “Where is my place?” si fa urgente e improrogabile e mai come di questi tempi essa assume per ciascun individuo, ma anche per l’intera comunità cui appartiene, un connotato politico e insieme esistenziale. Perché capire dove è il nostro posto rispetto a se stessi e in relazione agli altri è condizione imprescindibile per l’esistenza di un uomo, quanto di una nazione.
Alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia e quasi in risposta alle recenti polemiche sull’opportunità o meno di festeggiarla, la Fondazione Bevilacqua La Masa prende posizione offrendo uno spunto di riflessione che sposta la questione su un piano più universale invitandoci a comprendere le ragioni ultime e profonde che spingono un popolo a sentirsi e chiamarsi tale.
I diciotto artisti proposti provengono da sedici paesi diversi, tutti non ascrivibili alla compagine occidentale e i loro lavori raccontano storie di appartenenza e identità spesso sacrificate e quasi sempre violate.
“How do you want to be governed?” è la frase che, iterata senza sosta, ci accoglie e fa da sfondo a un video in cui Maja Bajević (Bosnia), subisce con impassibile compostezza le provocazioni di un uomo che la accarezza, la spinge e la colpisce con prepotente insistenza. Il video A Declaration di Yael Bartana (Israele) mette in scena con lirismo simbolico un messaggio di pace che auspica metaforicamente la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Nel video di Wong Hoy Cheong (Malesia) assistiamo a una sorta di fiction che ipotizza la colonizzazione dell’Austria da parte dell’impero malese: un documento provocatorio che spiazza lo spettatore affrontando con pungente ironia temi difficili quali l’immigrazione, il razzismo, l’abuso di potere. Ha un’ironia di segno opposto invece la serie di foto di Swetlana Heger (Repubblica Ceca) che ritrae degli animali scolpiti in bronzo e rinvenuti in numerosi parchi berlinesi, una curiosa Animal Farm eretta su piedistallo che fa sorridere ma che diventa inquietante motivo di riflessione quando si scopre che le statue hanno origine dalla fusione di un monumento di Stalin rimosso e distrutto dopo la sua caduta.
Viaggi, rispettivamente nel tempo e nello spazio dell’ex Unione Sovietica, sono i progetti di Aleksander Petlura (Ucraina) e Anastasia Khoroshilova (Russia): il primo, noto collezionista di oggetti che utilizza per inscenare grandi performance corali, con The Empire of Things ricostruisce la storia attraverso immagini allegoriche che sembrano rubate al teatro; la seconda, dopo aver viaggiato per due anni lungo gli estremi confini della Federazione Russa ci restituisce in fotografia l’immagine di un paese drammaticamente complesso le cui diversità etniche, sociali, religiose sono state annientate da ideologie nazionaliste spesso imposte.
Alexandra Croitoru (Romania) in ROM_ denuncia le contraddizioni e gli stereotipi della globalizzazione, che minacciano le identità nazionali presentando cinque foto di una donna in bikini che posa su una spiaggia caraibica indossando un passamontagna con il tricolore romeno.