In alcuni casi è proprio il fattore a cui si riesce a non soccombere, a consacrare il successo di un’impresa. A giocare questo ruolo, la “ipersaturazione” nella 15a Biennale di Lione, per cui un gruppo di sette curatori del Palais de Tokyo è riuscito a evitare la maggior parte delle insidie correlate all’organizzazione di queste manifestazioni ricorrenti. Se generalmente ci si trova davanti a una lista di artisti i cui nomi risuonano familiari, in questo caso molti erano nuovi per me. Laddove solitamente si prova una sensazione di sovraffollamento, qui si percepisce una sensazione di ampiezza dovuta al fatto che agli artisti è stata data carta bianca nello sviluppo dei loro progetti – talvolta ambiziosi. A proposito di ambizioni, mentre è sempre più comune per una biennale avere un apparato curatoriale–teorico precario a cui fanno da sfondo altrettanto deboli progetti artistici – a cui vengono selvaggiamente attribuiti radici politiche e un ampio spettro di fenomeni storici e futurologici – i lavori in questa biennale di Lione sono inquadrati in una larga struttura di associazioni.
Il titolo della mostra “Where Water Comes Together with Other Water” (Dove l’Acqua si Unisce ad Altra Acqua, ndt), deriva dall’omonimo poema dello scrittore statunitense Raymond Carver.
Il soggetto in questi versi dice di avere quarantacinque anni e di amare, nel senso stretto del termine, i corsi d’acqua: rigagnoli, sorgenti, torrenti, fiumi e come il titolo suggerisce, la confluenza della maggior parte di essi. Sappiamo molto poco del protagonista di questo componimento eccetto che, dieci anni prima che scrivesse questi versi, il suo cuore era “vuoto e appassito” ma all’alba dei quarant’anni era decisamente rinvenuto. Nella sua semplicità espressiva, Carver rappresenta forse un’improbabile fonte di ispirazione per una mostra che tende in tanti passaggi alla “spettacolarità”, tuttavia c’è un parallelismo tra il poema e la biennale e si ritrova nell’esuberanza dei rispettivi protagonisti (acqua e arte). Forse possiamo persino leggere un’analogia nell’evocazione del passato di chi parla (che è sia laconico che critico), e la sensibilità storica della Biennale poiché il titolo è chiaramente un omaggio a Lione, costruita sulla confluenza dei fiumi Rodano e Saona. La storia della città è scritta in quei fiumi. Sebbene a un certo punto del catalogo il lettore sia invitato a riflettere sui flussi di merci e di persone, il fiume come medium per il commercio e l’industria (il nesso è inevitabile data la sede della mostra, ovvero l’ex fabbrica di elettrodomestici Fagor-Brandt) rimane l’elemento più suggestivo.
Chiusa nel 2015, la fabbrica è uno spazio straordinario, una vasta e cavernosa sequenza di strutture. La sua presenza, sebbene riflessa e percepibile in vari modi nella mostra – per quanto possa sembrare stupido – è lampante dalla muscolarità ravvisabile in quasi tutti i progetti, la maggior parte site-specific. Stéphanie Tidet, ad esempio, costruisce un deserto attraversato da una pista da motocross a partire da camion carichi di terra e calce (Le silence d’une dune, 2019) mentre Sam Keogh trascina un trapano a colonna in un vecchio silo industriale da 230 tonnellate (Knotworm, 2019).
Alcuni artisti lavorano invece sulla verticalità: dal soffitto pendono tute grigie di lycra animate da performer, uno studio sulla flessibilità e sulla sembianza ai confini del non umano (Malin Bülow, Elastic Bonding, 2019). Altri si sono concentrati più sulle caratteristiche architettoniche del luogo piuttosto che sulla vastità: l’installazione di Khalil El Ghrib (untitled, undated) –– una serie di concrezioni composte da calce viva, carta e cartone tenute assieme da nastri colorati intrecciati, adagiate sotto una calotta metallica (quel che resta di una catena di montaggio) –– costituisce uno dei momenti più pacati e allo stesso tempo più magnetici della mostra. Evocativo e per certi versi imperscrutabile, il lavoro è effimero – si disintegra lentamente all’interno della carcassa di un macchinario. Creando un’atmosfera dai diversi toni ambientali, Bianca Bondi con The sacred spring and necessary reservoirs (2019) trasforma una cucina in un pungente e scintillante paese delle meraviglie invernale, coprendo ogni superficie con una densa coltre di cristalli di sale per trasformare “le energie negative [della chiusura della fabbrica] in vibrazioni positive”. Per quanto difficile che l’alchimia di Bondi infonda positività (negli operai disoccupati), l’altra parte dell’equazione sembra già essere compiuta: le vibrazioni positive ci avvolgono (se siamo abbastanza fortunati da sentirci parte della classe creativa – l’edificio è oggi di proprietà della città di Lione e ospita festival di musica elettronica).
Gran parte dei lavori in mostra è animata da un senso di giocosità e teatralità, caratteristica riscontrabile anche nelle pratiche di artisti che imitano o parodiano i processi meccanici. Affascinante e stravagante, Fernando Palma Rodriguez ha automatizzato alcune decine di abiti di bambine, che si muovono su e giù da un impianto nelle travi (Tetzahuitl, 2019). Saboteurs (2019) di Mire Lee è una massiccia scena fantascientifica, in cui una strana sostanza gommosa viene lentamente mossa da un motore, per culminare sgocciolando altrove in una vasca ricolma di una sostanza lattiginosa. L’installazione di Thomas Feuerstein ricorda vagamente un dipartimento di “Ricerca e Sviluppo” industriale. Un caricaturale e sovradimensionato laboratorio di chimica, con tubi che corrono dappertutto e in nessun posto in particolare e enormi bechers riempiti da misteriosi liquidi colorati (Prometheus Delivered, 2017-2019) potrebbero svolgere il compito attribuitogli: dissolvere una statua in marmo di Prometeo con batteri mangia-pietre, mentre simultaneamente, sempre tramite gli stessi microorganismi, generare un fegato artificiale per la statua stessa.
Queste ironiche prestazioni meccaniche possono risultare di difficile di lettura nel contesto dell’ex fabbrica, forse nessun oggetto esprime questa imperscrutabilità quanto la lavatrice rivestita in raso rosa trapuntato e tempestata di cristalli Swarovski –– una collaborazione in edizione limitata tra Vedette (un brand prodotto da Fagor-Brandt) e la designer di lingerie Chantal Tomass (2006). È un oggetto bizzarro e affascinante, persino esilarante, ma cosa ce ne facciamo? Una femminilizzazione dello spazio mascolinizzato della fabbrica? Il simbolo di una sorta di decadenza: lo scivolamento della macchina nel regno del design? In effetti, penso che questa astrusità di senso sia un segno di ambivalenza rispetto all’idea di fabbrica nel presente. La deindustrializzazione è una storia vecchia di decenni, sebbene sia ora spesso al servizio dei crescenti nazionalismi e razzismi.
Anche se non fosse stata rivendicata dall’estrema destra, questo senso di nostalgia per l’industria è difficile da mantenere vivo considerando il collasso ecologico attuale.
Anche questa è una storia familiare, e la decadenza è parte della spettacolarità esuberante di questa biennale. Ci sono opere che immaginano esplicitamente scenari apocalittici: Feuerstein, per esempio, ma anche l’aereoplano incidentato in resina e acciaio di Rebecca Ackroyd (Singed Lids, 2019). Più dilagante è l’interesse per l’entropia: opere che si sbriciolano, si sciolgono o si disintegrano in diversi modi. Oltre a quelli già descritti, Ivory Dampers (Battery) (2019) di Isabelle Andriessen ne costituisce un ulteriore esempio: sorrette da una struttura metallica rasoterra, una coppia di forme grumose attraversate da una rete di tubi culminanti in una serie di pozzanghere liquide sul pavimento; sebbene leggermente illuminate, le sculture sembrano essere in fase di “trasformazione… come organismi infettati da uno strano virus o inquietanti mutanti provenienti da un ipotetico futuro”. Ci sono inciampato. In effetti, sono inciampato in almeno tre delle opere più sdrucciolevoli.