Who knows one è l’interrogativo che l’artista Haim Steinbach, in questa occasione nelle vesti di curatore, ha rivolto a ventitré artisti, diversi per generazione, provenienza, linguaggio. La domanda – che deriva da una canzone tradizionale ebraica tratta dall’Haggadah e cantata a Pasqua, in cui nozioni religiose sono esposte attraverso una sequenza numerica – si apre qui al senso dell’arte. Le risposte delineano una mostra composita e coerente, attraversata da varie ragioni fondate su contesti comuni (New York), origini (ebraiche), legami affettivi o professionali, influenze.
La curatela è in un certo senso inscritta nella pratica di Steinbach, basata sulla selezione e presentazione di oggetti sul dispositivo della mensola – diventato sua cifra distintiva. Proprio ad alcuni dei nodi problematici del suo lavoro sembrano riferirsi le opere selezionate, che disegnano una trama sottile di rimandi all’interno della quale lo spettatore è libero di costruire la propria narrativa. Un nucleo lavora sull’assemblaggio di oggetti o immagini trovate (Harrison, Marten), che rinviano alla domesticità (Shaver, Winter) o all’interesse nei confronti dei valori di superficie (pittorica nel caso di Manetas, murale in chiave optical per Kogler).
La testualità è un’altra dimensione ricorrente, investigata nel concettualismo “classico” di Kosuth, oggetto di rilettura nel wall text di Gillick, nel lightbox di Jaar, nei quadri di tema musicale di Philipsz, nel progetto occulto di Bader che vive nel foglio di sala. A questa si lega la riflessione di natura semiotica sul rapporto fra segno, simbolo, parola, pensiero (il segnale stradale rivisitato da Reus, la bandiera russa modificata in senso queer di Slavs and Tatars, l’icona dell’aquila manipolata da Kempf, le foto di strada di Smith, la dialettica fra immagine e testo in Schaerf); un’indagine che si applica al medium fotografico nei contributi di Stillman e Ninio. Commovente la testimonianza di Spalletti, scomparso pochi giorni dopo l’apertura della mostra.
Altri autori rispondono in maniera più esplicita al quesito curatoriale, come Fujita che rielabora in maniera plastica la verticalità di Onement I di Newman – citato da Steinbach quale riferimento nel suo ragionamento – o all’opposto lo dirottano verso una deriva assurda come nel video di Rottenberg e nella scultura di Kurant.