Roma — In ricordo di Elisabetta Catalano

5 Gennaio 2015

Non so nemmeno se ce la farò a scrivere questo breve ricordo tanto grande è il mio dolore per la perdita di Elisabetta Catalano, tanto grande era la nostra amicizia. Ci proverò. Sembra impossibile che l’inesauribile vitalità di Elisabetta debba interrompersi, che la splendida galleria di ritratti contemporanei di una delle fotografe più grandi debba restare incompiuta. Elisabetta aveva scelto il ritratto (non c’è niente di più semplice e di più profondo diceva Baudelaire) fin dai suoi esordi che si collocano in un luogo molto speciale, il set di 8 e mezzo di Federico Fellini (1963), regista con il quale inizia da allora un lungo e importante sodalizio (Fellini, che non è mai soddisfatto dei suoi ritratti, ama invece quelli fatti da Elisabetta, dal primo, che lo coglie in un gesto da mago, all’ultimo premonitore in un gesto di commiato, prima di partire per ritirare l’Oscar alla carriera nel ‘93). Su quel set Elisabetta, giovanissima, ci sta perché Fellini l’ha scelta per la parte della sorella di Luisa (Anouk Aimée), moglie del protagonista Guido Anselmi (Marcello Mastroianni). Sfido chiunque a rivedere il film e a non trovare Elisabetta la più bella di tutte in un film di bellissime: Sandra Milo, Claudia Cardinale, Barbara Steele e tutte le altre figure femminili dell’harem di Guido-Mastroianni. Sul set Elisabetta un po’ si annoia, perché non ha nessuna intenzione di fare l’attrice (non amava stare dall’altra parte della macchina, anche le foto che la ritraggono saranno pochissime) quindi si porta dietro una vecchia Mamiaflex del padre e comincia, per divertimento, a fotografare gli altri. Il servizio ha un grande successo e viene pubblicato.


Quella che Elisabetta ritrae è principalmente la società composta di artisti, intellettuali, poeti, musicisti, mai visti con distacco sociologico, ma con condivisione dei processi creativi e con acutissima capacità di cogliere quella gioia che prova chi riesce a fare opera di un proprio pensiero. Ma si ricordano anche alcuni memorabili ritratti di politici, come quello di Andreotti che domina la città di Roma (1984). Bellissimi i doppi ritratti di Pier Paolo Pasolini e Laura Betti sotto casa dello scrittore all’EUR nel ’69 per i quali Moravia ha parlato di “contrappunto”. Ma il campo d’elezione di Elisabetta sarà il ritratto in studio, un genere che ha bisogno della massima concentrazione. L’inquadratura sarà un primo piano tagliato a busto, lo sfondo un monocromo sfumato come un quadro. Nasce un tipico “stile Catalano” del ritratto segnato da una grande tensione a cogliere i segni di un profondo interno nel momento in cui emergono alla superficie e si disegnano su un volto fino a manifestare l’essenza del personaggio. I capelli animati da una lieve brezza, le labbra socchiuse, la fossetta, le piccole mani incrociate sui seni acerbi, il candore luminoso della pelle nuda, vestita solo da un braccialetto, un anello, un filo d’oro al collo: così appare Stefania Sandrelli in un celebre ritratto di Elisabetta Catalano (1967). Mitici sono i suoi ritratti di “gente di cinema”. Dominique Sanda, Lino Capolicchio e Helmut Berger sono mollemente adagiati su un prato sul set de Il giardino dei Finzi-Contini (1970). Gli occhi intensissimi di Richard Harris e lo sguardo limpido di Charlotte Rampling. Le forme plastiche di Ursula Andress e la figura arcaica, mediterranea e drammatica di Irene Papas. Nitidissimo, ed evidenziato dal turbante con veletta, il profilo di Silvana Mangano sul set di Gruppo di famiglia in un interno di Visconti (1974). Molti di questi ritratti diventano icone tipiche di un’epoca, come la foto di Florinda Bolkan, figura-onda dal sinuoso andamento del corpo, donna-Sfinge, leonina e femminile che diventa il manifesto del film Metti una sera a cena di Patroni Griffi (1968).
Negli anni Settanta Elisabetta Catalano è molto impegnata nel lavoro per “Vogue” nelle varie edizioni, italiana, americana, francese. Non prediligerà mai però la foto di moda, perché lì l’immagine del personaggio è in un certo senso precostituita. Lei invece lavora con accanito perfezionismo per fermarsi solo quando è certa di aver colto il carattere essenziale della persona, dopo averla spogliata di ogni falsa immagine del sé. Lavora anche per “L’Espresso”, “Il Mondo” e il “New York” pubblica una sua foto di Lina Wertmuller. Nel ’78 la Polaroid le commissiona una serie di ritratti di registi italiani per una mostra a Boston. Dopo questa esperienza al suo caratteristico bianco e nero si aggiungerà sempre più l’uso del colore.
Nella perfetta calibratura di luci e ombre l’immagine è sempre nettamente messa fuoco fino ad acquisire un nitore che si ritrova solo in certe immagini del cinema americano anni ’40. “Ognuno risulta fotografato come se fosse l’unico al mondo fotografato da Elisabetta Catalano” commenta Ottiero Ottieri. Sono tanti gli scrittori che usano i suoi ritratti per le copertine dei loro libri. Uno dei più grandi scrittori italiani, Alberto Moravia è stato fotografato tante volte da Elisabetta, a partire dal penetrante ritratto del ‘70. Moravia era pieno di vitalità, freschezza quasi infantile, curiosità, quella stessa curiosità divertita che ha animato la ricerca di Elisabetta Catalano che forse proprio per questo ne ha fatto uno dei suoi soggetti preferiti. Alberto Arbasino (fotografato più volte da Elisabetta) la definisce “un genio della ritrattistica camuffato da bella donna”. Non ci si aspetta mai infatti che una donna tanto bella sia anche tanto brava.
Compagna per molti anni di Fabio Mauri, Elisabetta ha sempre frequentato il mondo dell’arte, quello che più l’appassiona tra tutti i mondi da lei attraversati, intessendo con artisti italiani e stranieri di varie generazioni un dialogo fatto anche di reciproco scambio. Testimonianza di questo rapporto è la mostra del ’73 al Cortile di Roma per la quale la fotografa studia un allestimento particolare su modello di un’impaginazione di “LIFE”. Si tratta di una trentina di ritratti che vanno da Lawrence Weiner ad Alighiero Boetti, da Joseph Beuys a Enrico Castellani, da Joseph Kosuth a Maurizio Mochetti… In quegli anni Elisabetta frequenta le più importanti rassegne internazionali da Documenta di Kassel (dove nel ’72 fotografa Mario Merz) alla Biennale di Venezia (dove nel ’78 fotografa Daniel Buren). Alcune di queste relazioni con gli artisti si precisano in più specifici rapporti professionali, avviando vere e proprie collaborazioni in cui gli artisti usano immagini di Elisabetta Catalano per realizzare opere d’arte, raccolte dalla fotografa sotto il titolo di Work with. Per molti artisti il ritratto di Elisabetta riveste un ruolo particolare. Gino De Dominicis lo sceglie come unico ritratto della sua vita, ma lo utilizza anche come opera (a Contemporanea nel ’73). Lo stesso ritratto sarà usato da Vettor Pisani per i suoi omaggi a Gino dopo la morte di quest’ultimo. Ma c’è di più: per molti artisti Elisabetta realizza varie sequenze fotografiche, spesso ricostruite o nate nel suo studio, che documentano azioni e performance. Si può dire in un certo senso che nello Studio Catalano (per molti anni a Palazzo Balestra in piazza Santi Apostoli a Roma, negli ultimi tempi trasferito a piazza Cenci) nasce un vero e proprio genere, la performance in studio, a porte chiuse, senza pubblico, fatta per l’esito fotografico, per essere tramandata e non consumata, in un muto dialogo tra le fotografie dell’artista e l’occhio della fotografa. E’proprio l’identità di ritrattista di Elisabetta a interessare gli artisti in un’epoca in cui il corpo e il volto diventano privilegiati materiali espressivi dell’arte. Il nitido linguaggio fotografico di Elisabetta conferisce permanenza ad azioni altrimenti effimere fermando l’attimo nella posa. Come nei ritratti Elisabetta rivela un notevole intuito psicologico che le permette di cogliere l’interiorità della persona, così in questa tipologia di lavoro emerge un’acuta interpretazione dell’opera degli artisti. Cesare Tacchi fa riemergere la propria immagine attraverso un vetro in Action painting (1972). Gilbert & George posano per lei davanti alla loro serie di disegni Drifters (Sperone 1972). Beuys porge un’invisibile scultura e Aldo Mondino esegue per lei la “veronica” del torero. Ma soprattutto è notevole il lavoro fatto in collaborazione con Vettor Pisani e Michelangelo Pistoletto. Pisani già dal ’70 lavorava a Lo Scorrevole, una sorta di macchina celibe ispirata al Grande Vetro di Duchamp ed Elisabetta aveva già fotografato per l’artista una sequenza in cui il corpo femminile è legato attraverso un collare a un cavo e scorre orizzontalmente nello spazio. In un’altra sequenza Pisani aveva utilizzato la foto di Man Ray in cui Meret Oppenheim è in posa in un gesto di iniziazione. Il medesimo atteggiamento, complice sempre l’occhio di Elisabetta, sarà replicato nel lavoro con Pistoletto, dove la donna in posa è la sposa di quest’ultimo e si chiama proprio Maria. Nel ’73 questo lavoro, con il titolo di Plagio viene presentato alla Marlborough di Roma. Il reciproco “plagio” nasce nel ‘71 da un desiderio di fuga dall’io. La posa di Meret è assunta da Maria, per realizzare questa immagine, che Pisani traspone in vetro e Pistoletto in specchio, è necessaria l’opera di un fotografo e i due scelgono Elisabetta che entra così a far parte del gioco del plagio. Come si erano appropriati della foto di Man Ray, così fanno con la foto di Maria Pioppi scattata nello studio Catalano. Alcune di queste sequenze saranno in seguito “animate” da Elisabetta in una proiezione di diapositive (come nelle mostre da Gian Enzo Sperone a Roma nel 1999, da Massimo Minini a Brescia nel 2004 e più recentemente nella retrospettiva di Vettor Pisani al museo MADRE di Napoli). Questi esperimenti sviluppano l’idea di un ritratto attivo, in movimento, latente già in molte precedenti foto. Nascono parallelamente alla progressiva trasformazione in senso dinamico del ritratto.
Ma sicuramente la collaborazione più importante è quella con Mauri. Per Ebrea e Ideologia e natura (1971 e 1973) Fabio Mauri chiede una “lettura” a Elisabetta Catalano, affidandosi all’istinto di comprensione della fotografa. Per l’opera che nasce in studio, diversa dalle foto di reportage, Elisabetta predispone fondali, inventa luci, coopera con l’artista alla messa in evidenza del nucleo del discorso, concorre con Mauri alla scelta di un’immagine che in qualche modo riassume le altre. All’interno di un’immagine c’è a volte una sintesi: è questo il momento in cui una foto diventa emblematica. Tutta l’opera di Mauri verte sull’idea guida di rendere fisico il pensiero. Per questo aveva predisposto gli schermi; per questo lascia che il pensiero intossichi una stanza (come nel titolo di un suo ambiente); per questo usa il corpo nelle performance. Per questo utilizza la proiezione, che rende visibile il pensiero. Per questo la proiezione di Gertrud di Dreyer avviene su una bilancia che segna un peso. Perché il pensiero ha un peso, così come ha un’immagine che può essere visualizzata. Per dare corpo a questo pensiero visivo Fabio Mauri ricorre alla collaborazione dell’obiettivo sensibile, ma di grande decisione, di Elisabetta. “Quando tu fai la ritrattista, vuoi in qualche modo evidenziare il pensiero dell’altro e nello stesso tempo su di lui proietti il tuo” diceva Elisabetta. Quasi paradossalmente il ritrattista si rivela il fotografo più adatto a cogliere in profondità il pensiero dell’artista, a costringere l’interiorità della mente a svelarsi in superficie. Ed è proprio questa capacità di evidenziare il pensiero che Mauri ha cercato in una fotografa ritrattista. Con Ricostruzione della memoria a percezione spenta (1988) Mauri stesso si fa schermo. Questa performance ricostruita in studio fa parte di una delle serie più innovative di Mauri, quelle delle conferenze-performance. In questo caso Mauri, dopo aver letto un suo testo, mentre si fa proiettare sul viso un film (un’animazione girata dal suo assistente Cantelmi) commenta a braccio le immagini. E’ il processo del pensiero stesso a materializzarsi sulla scatola cranica dell’artista, sede della mente. Aveva scritto Camilla Cederna a proposito dei ritratti di Catalano: “…il pensiero quasi visibile sulla fronte di un intellettuale…”. E proprio per rendere visibile questo pensiero fisico che Fabio Mauri affida a Elisabetta Catalano il compito di fissare il flusso di questo pensiero fino alla parola “FINE”, quella stessa che avevamo trovato impressa sui suoi schermi e che Elisabetta coglie nella sua compenetrazione con l’artista. Se molti artisti si rivolgono a Elisabetta è perché le riconoscono la capacità di restituire particolare iconicità all’effimera processualità della performance.
Si susseguono mostre grandi (GNAM, Roma 1992; GAM, Torino 2005) e piccole (Ogni sera con Elisabetta, Pio Monti 2009), cataloghi e libri (la monografia dedicata alla collaborazione con Mauri edita da Maretti nel 2013), sempre coadiuvata dall’apporto intelligente e sicuro dell’architetto Aldo Ponis, suo compagno di vita e di lavoro da molti anni. I ritratti si fanno via via più ambientati, ma senza nessuna concessione, solo ulteriore connotazione del ritratto. E mentre troviamo ancora classici ritratti in studio come quello del Premio Nobel Amartya Sen che rivolge al futuro un radioso sorriso di speranza sottolineato dalla luce radente si afferma anche un diverso filone di ricerca. L’immagine si allarga all’ambiente circostante, considerato come espressione del personaggio, parte integrante del suo essere, elemento significante per intuirne l’essenza. Ettore Spalletti addirittura passeggia all’interno della propria opera come dentro un colore.
Inoltre emerge sempre più un altro aspetto: Elisabetta è affascinata dalla gioia che ogni creatore intellettuale prova nel fare il suo lavoro. E’ per questo che i suoi ritratti si trasformano in ritratti in azione: come Nunzio, vero e proprio homo faber, Carla Accardi che lavora alacremente e allegramente china sul tavolo, Ontani nelle sue pose, ma anche Uto Ughi che suona rapito e Argan nella sua monacale cella da studioso. Ovunque Elisabetta ha saputo cogliere l’ansioso furore, ma anche l’appagamento e l’autentica felicità della creazione.
Ci mancheranno la tua ironia, la tua eleganza, il tuo stile. Ci mancheranno le grandi feste nello studio di Santi Apostoli dove tanti mondi diversi si mescolavano, le piccole cene nella casa di piazza Margana dove tanti discorsi diversi si intrecciavano, il tuo terrazzo fiorito. Ci mancheranno le foto che non hai fatto (ma sarà sempre una gioia poter contare sul tuo grande repertorio). Ci mancherà il tuo occhio, soprattutto. Cara Elisabetta, sei sempre te la più bella!

Laura Cherubini

 

 

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