Betty Woodman (1930 in Norwalk, Connecticut) al Museo Marino Marini condensa oltre sessant’anni della propria carriera, ripercorrendo intrinsecamente un itinerario che ha portato i suoi lavori ad essere esposti in alcuni dei musei e dei contesti più prestigiosi, dal Metropolitan di New York a Palazzo Pitti. Negli anni, ha saputo commistionare la conoscenza artigiana dei ceramisti italiani e un personale approccio de-compositivo, svolgendo un ruolo fondamentale per almeno una generazione di giovani artisti, che ne ha colto l’approccio sperimentale. Dopo il Museo Marino Marini, la mostra avrà una seconda tappa presso l’ICA (Institute of Contemporary Arts) di Londra, dal 2 Febbraio al 10 Aprile 2016, dove troverà nuova configurazione e allestimento, sempre a cura di Vincenzo de Bellis.
Ginevra Bria: Riconsiderando il tuo intero percorso artistico, chi ritieni essere il tuo maestro o i tuoi maestri?
Betty Woodman: A seconda dei diversi periodi della mia vita ho avuto differenti maestri e ancora adesso sto imparando da altri artisti. Posso affermare che comunque tanto Bonnard quanto il Beato Angelico hanno ancora oggi un enorme significato per me, in termini di totalità cromatico-compositiva. Negli anni Ottanta Frank Stella e i suoi dipinti hanno avuto nuovamente un’enorme influenza. Ma ancor prima, quando nel 1951 sono arrivata in Italia, sono rimasta sopraffatta da tutta la produzione artistica rinascimentale di diverse città, così come dalla potenza dei blu e dei bianchi. Dunque non credo di aver avuto un solo maestro o di averne perseguito uno solo. Quel che realizzo oggi è frutto dell’esperienza di quel che ho creato e di quello che sta ancora modificandosi in me, giorno per giorno. Comunque la lezione che ho amato di più è stata quella impartita dall’Italia, appena uscita dall’Accademia conoscevo il mondo della ceramica giapponese e di quella coreana, ma poi ho conosciuto il mondo della maiolica, proprio nel Bel Paese. Dipingere sulle forme non faceva affatto parte della mia educazione mentre qui, nel Dopoguerra, nello studio di Giulio Ferrero, dove chiesi di essere ammessa, è diventata una necessità.
GB: Si è dimostrata più docile, in un certo senso “più facile” per te la pittura, nel corso degli anni?
BW: Forse non tanto più facile, quanto più interessante. Nel mio lavoro ho sempre voluto guardare con facilità e in maniera diretta, ma non mi è mai interessato raggiungere un’estetica dell’ammirazione. Nel comporre voglio che il mio lavoro appaia come se fosse facile, di semplice lettura intendo, fresco e immediato. Non voglio che si intuiscano le ore spese con il pennello e con le mani nella creta, anche perché queste, a volte, sembrano venire più fluidamente rispetto a momenti in cui risulta più complesso creare. Il mio scopo non è mostrare la pittura ma è rimanerle dentro, per farla uscire dall’interno, rapidamente, tra acrilici che rimangono trasparenti affinché entrino a far parte dell’opera e non la sovrastino. Io non realizzo mai bozzetti o disegni prima di realizzare i miei lavori e solo mentre li faccio prendo decisioni in merito. Credo che se io dovessi sapere come i lavori dovrebbero essere, probabilmente non mi metterei nemmeno a comporli. E’ proprio così, posso vedere attraverso di loro perché non ne ho in mente la loro interezza finale.
GB: Come la ceramica, e l’argilla ancora prima, valorizzano, danno voce ad alcuni aspetti della tua personalità, del tuo sé, influenzando anche i tuoi approcci estetici?
BW: Stavo parlando con Vincenzo del fatto che la mia vita possa sembrare come un collage, per il modo in cui è stata vissuta. Dunque, riguardare a quel che ho realizzato in sessant’anni di carriera mi fa pensar tanto alle mie ricerche sulla Bauhaus quanto in realtà a come sono stata impressionata dal sapere artigiano e di come entrambe le diverse funzionalità si adattino, oppure modifichino la vita della gente. Entrambe queste dimensioni si sono unite in un sentimento che ritrovo molto spesso quando dipingo sulla ceramica, una gestualità e un rito completamente diverso dall’utilizzo della tela. Di solito non mi pongo mai domande riguardo a quel che faccio, ma tengo sempre a mente il dovere di accettare e riconoscere l’antichità del materiale che sto lavorando, estendendo l’idea di quel che un dipinto può essere e diventare. Adoro dipingere, ma ritengo che la storia della ceramica abbia cambiato il modo di guardare all’arte pittorica aggiungendo, introducendo qualcosa di nuovo.
GB: Le tue efflorescenze, le tue nature rampicanti da dove traggono ispirazione?
BW: Dipende moltissimo dalle volte in cui mi trovo a cominciare un lavoro. Talvolta viene fuori dal mio subconscio, senza che io riesca a controllare l’ispirazione, ma molto spesso mi lascio guidare da immagini che ritrovo in cataloghi d’arte, come quelli, fra gli altri, di Matisse, oppure altre volte mi lascio coinvolgere e affascinare dagli affreschi. Gli elementi ceramici in pittura diventano una sorta di referenza esperienziale e possono riconnettersi, ad esempio, alla geometria delle scene pompeiane. Così come dai danzatori giapponesi, oppure dai kimono esposti al Metropolitan, quasi un anno fa. Sono molto eclettica, riscontro più di un’influenza in un solo lavoro. Inoltre, nei dittici e nei trittici a loro volta si influenzano e si relazionano vicendevolmente creando senso anche nello spazio che li separa. Quel vuoto è per me molto importante, perché li distingue e cambia il modo in cui vederli, da un lato all’altro.