Vivian Maier, Forma Meravigli, Milano

14 Dicembre 2015
Vivian Maier, Senza Titolo. Fotografia. Vivian Maier-Maloof Collection. Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York
Vivian Maier, Senza Titolo. Fotografia. Vivian Maier-Maloof Collection. Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

Di Vivian Maier arriva inevitabilmente prima il mito del caso mediatico, poi l’artista. Una vita che ha dell’incredibile, spesa a perseguire l’invisibilità. Era una tata per le eleganti famiglie della upper class americana e coltivò con tenacia la sua immagine esteriore, con tutti gli stereotipi della bambinaia. Ma all’insaputa di tutti, era una raffinata fotografa autodidatta, solitaria e geniale. Questa clandestinità artistica è potuta sopravvivere grazie alle sue indubbie capacità mimetiche ma soprattutto all’incapacità dell’essere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali preconcette.

A tirarla fuori dall’oblio un colpo di fortuna, quando John Maloof compra all’asta il contenuto di un box, dove era conservato con cura parte del suo archivio. È l’inizio della consacrazione, avvenuta dopo la sua morte. Nel tempo, sono emerse oltre centomila immagini, tra negativi, pellicole mai sviluppate e poche stampe in piccolo formato; che la Maier non ha mai condiviso, pubblicato o esposto. Una selezione di questa immensa produzione è in mostra a Milano, negli spazi di Forma Meravigli, con il titolo Vivian Maier. Una fotografa ritrovata. Foto in un bianco e nero, realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta con la Rolleiflex che amava, nelle città dove ha vissuto – soprattutto New York e Chicago – o viaggiato; alcuni scatti a colori del decennio successivo, realizzate con la Leica, e le sperimentazioni nei filmati in super 8. Con un’estrema attenzione alla costruzione formale, ai piccoli dettagli, e uno sguardo empatico, a volte declinato in chiave ironica, quasi intransigente, creava un gioco di rimandi tra sé e ciò che inquadrava: la strada, gli scorci e le simmetrie urbane, gli abitanti sconosciuti delle città, la sua stessa immagine. Istanti rubati, irripetibili, capaci di restituire un frammento di storie, pezzi di vita, lo spirito del luogo, spaziando dal poetico allo spiacevole. Una narrazione intensa, personalissima, del tempo in cui vive, delle sue trasformazioni e contrasti. Anche nei ritratti – signore dell’alta borghesia, bambini, emarginati, anziani, lavoratori – i soggetti sono colti di soppiatto, accogliendo e valorizzando gli attimi, i dettagli, in cui il vero si manifesta, per dispiegarlo e comprenderlo. Spesso si fotografava nelle superfici riflettenti, specchi, pozzanghere, finestre, vetrine. O attraverso la sua ombra. Non sono autoritratti celebrativi. Nel lavoro di Vivian Maier la questione del senso è centrale, la perplessità del senso dell’esserci e il tentativo di coglierlo attraverso la fotografia. Probabilmente non scioglieremo mai il mistero che la circonda, ma questo non è importante. Ciò che conta è la capacità della sua fotografia di rivelare quanto può celarsi dietro l’apparenza, di creare una sospensione, dove l’invisibile diventava visibile.

by Francesca Caputo

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