Eugenio Carmi (1920- 2016), Fabbricante di immagini

22 Febbraio 2016

Il Museo del 900 a Milano celebra in questi giorni Eugenio Carmi con la mostra ‘Appunti sul nostro tempo’, un’ antologia di opere su carta realizzate tra il 1957 e il ’63 a cura di Davide Colombo. E’ dall’incontro e dalla commistione dei linguaggi tra pittura, grafica e oggetto industriale che ha origine il percorso di Carmi.

Era nato a Genova nel 1920, quando alla Bauhaus, fondata pochi mesi prima da Walter Gropius, si svolgevano i corsi del primo anno accademico.

Ho avuto il grande privilegio di conoscere e diventare amico di Eugenio verso la metà degli anni 80, grazie a Valentina, la più giovane dei suoi quattro figli, a cui mi lega da allora una amicizia e un affetto un po’ speciali. All’epoca ero uno studente universitario che scriveva recensioni di mostre per alcune testate, tra le quali anche Flash Art.

In casa Carmi, in quegli anni non era raro incontrare e conoscere personaggi come Pierre Restany, o Umberto Eco e Gillo Dorfles, Per me, poco più che ventenne, capitato per caso in quel mondo, Eugenio Carmi rappresentava già allora non solo l’artista famoso e pienamente consapevole del suo ruolo e padrone della sua professione, ma l’esempio stesso dell’artista calato nel suo tempo, che vive e lavora accanto a grandi intellettuali.

In tutta la sua esistenza Carmi ha perseguito una visione dell’arte molto chiara, attraverso la sua funzione educativa, formativa, ovvero estetica ed etica al tempo stesso. Tra le sue fonti di ispirazione proprio la lezione di Bauhaus, dove si studiarono l’evoluzione delle forme artistiche e architettoniche allo scopo di consegnare alla società quei linguaggi innovativi in grado di migliorare la vita dell’uomo nella società moderna. Questo era lo scopo, semplice e chiaro, del Modernismo: sviluppare le funzioni sociali dell’arte e metterne in opera i frutti. L’arte, così concepita, si emancipava dalla sua natura puramente espressiva per trasformarsi in un progetto sociale e quindi anche politico.

La formazione di Carmi, dopo il trasferimento in Svizzera nel 1938 a causa delle persecuzioni razziali, e una laurea in chimica conseguita a Zurigo, è nella Torino dell’immediato dopoguerra, soprattutto a lezione da Casorati, dal quale apprende quella compostezza ed eleganza ben temperate che non lo abbandoneranno mai. Quando Carmi arriva nel ’56 all’Italsider, di cui è grafico e curatore dell’immagine, ha inizio un decennio per lui straordinario, che segna il passaggio dall’Informale alle esperienze di arte cinetica, una conseguenza della produzione di quelle monumentali sculture in acciaio che approdano alla leggendaria mostra per il Festival dei due Mondi, a Spoleto nel 1962: Sculture nella Città, curata da Giovanni Carandente. Nel ’58 presso la galleria Numero a Firenze, Carmi aveva esposto le opere della sua prima personale, curata da Gillo Dorfles; è del 1966 la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia con l’opera elettronica SPCE (Scultura Policiclica a Controllo Elettronico), una complessa macchina produttrice di segni imprevedibili, una sorta di macchina ‘fabbrica di immagini’.

Io credo che l’esperienza di artista grafico e di editore presso le acciaierie dell’Italsider sia la chiave di volta per comprendere , oltre al suo lavoro, i sentimenti e i temi di una generazione di intellettuali italiani negli anni del boom economico e della diffusione della cultura marxista nel paese. Amò definirsi, appunto, ‘fabbricante di immagini’, proprio perchè con gli stabilimenti delle acciaierie aveva intrattenuto un rapporto fecondo e creativo.

Così come il design crea modelli funzionali e di comportamento capaci di migliorare la vita quotidiana, l’arte di Carmi negli anni 60 si profonde, attraverso centinaia di progetti, nello sforzo di migliorare le condizioni in cui opera il mondo del lavoro. Nelle sue grandi sculture in acciaio Carmi liberava i materiali e le forme dal loro assoggettamento; creava nuovi paradigmi sociali mostrando, nella libertà del materiale usato, il potenziale creativo umano. L’arte aveva l’obiettivo di trasformare l’etica dell’oggetto, e quindi l’etica del lavoro, da arcaica fatica in moderna gratificazione, da oppressione in libertà, da schiavitù in autocoscienza. Ha fatto in tempo ad appartenere a quella generazione di intellettuali che riteneva la tecnologia capace di accompagnare l’essere umano, non di dominarlo.

Prevale nella sua visione artistica e umana la dimensione utopistica su quella realistica, un incrollabile ottimismo nella natura creativa dell’uomo. Eugenio un utopista lo era davvero, soprattutto per indole personale, per il suo inesauribile bisogno di progettare, e perchè amava la sua famiglia, la sua meravigliosa moglie, l’artista Kiky Vices Vinci, e tutti i suoi amici oltre ogni possibile immaginazione.

Ha concluso la sua vita in una clinica di Lugano il giorno prima di compiere il suo

96 esimo compleanno. Aveva progettato anche questo.

Ricorderemo per sempre il suo sorriso, il suo senso dell’umorismo e la sua straordinaria simpatia e naturale eleganza.

Quanto alla coerenza, all’onestà intellettuale e alla dignità, penso di poter dire, insieme a tutti i suoi amici, che non gli è mai costata alcuno sforzo.

by Massimo Kaufmann

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