Aram Moshayedi su Made in L.A. 2016

16 Settembre 2016

Il 12 giugno ha aperto la terza edizione della Biennale promossa dall’Hammer Museum “Made in L.A.”. Questa edizione, che hai co-curato insieme a Hamza Walker, è intitolata “a, the, though, only”. Avete cercato artisti il cui lavoro è in qualche modo connesso alla città di Los Angeles? Credi ci sia qualcosa di caratteristico nell’arte della città, oppure si tratta solamente di opere realizzate in quel determinato confine urbano?

Abbiamo cercato di evitare che la Biennale fosse interpretata come un’indagine su Los Angeles; anche se, ovviamente, la città emerge in diverse opere in mostra. I cliché legati a Los Angeles continuano a essere persistenti, persino quando sono contradditori. Abbiamo tentato dunque di lasciarci alle spalle le nostre certezze, evitando qualsiasi argomento che potesse essere interpretato come esclusivamente legato al contesto. “Made in L.A” tenta di esprimere uno sguardo interiore, un’amplificazione. La prima Biennale del 2012 riguardava la creazione di una piattaforma per artisti che vivono e lavorano qui. È facile che dall’esterno l’arte prodotta a Los Angeles sembri legata a una ristretta cerchia di uomini bianchi, acclamati dal mercato; ma questa non è la realtà del luogo.

Nella mostra sono presenti artisti in diverse fasi della loro carriera. Da figure affermate ad artisti emergenti, fino a figure più storicizzate e fin ora raramente considerate. Sono personalmente interessato all’inclusione di Kenzi Shiokava e Huguette Caland. Come mai avete deciso di includerli? Cosa rappresentano?

Ci sono una manciata di “mini-mostre” che attraversano la mostra principale. Caland e Shiokava, in particolare, sono due esempi in cui abbiamo assemblato una vasta gamma di lavori così da riflettere sul lungo arco delle loro rispettive carriere. Piuttosto che selezionare artisti che hanno lavorato per decenni in relativa oscurità e considerarne solo un particolare periodo o un corpus di lavori, abbiamo scelto di seguire un impulso retrospettivo. Condensare il lavoro di una vita in una mostra di questa scala rappresenta una sfida. Ancora più arduo è prendere figure come Caland e Shiokava e metterle in relazione ad artisti come Daniel R. Small, che negli ultimi sei anni ha lavorato a un progetto sullo scavo archeologico dove Cecil B. DeMille ha filmato nel 1923 I Dieci Comandamenti.  Mentre gli sguardi e gli approcci di qualcuno come Small differiscono da quelli degli artisti più vecchi che ho menzionato, la profondità, l’intensità e il peso concettuale di questi gesti è onestamente alla pari con il loro impegno condiviso e il loro rigore.

 

Eli Diner

 

(Traduzione dall’inglese di Giulia Gregnanin)

Cerca altri articoli

News