Luciano Fabro Simon Lee / Londra

18 Dicembre 2017

Nel 1967 Germano Celant, sulle pagine del manifesto dell’Arte povera, osserva come Luciano Fabro “ripropone la scoperta del pavimento, dell’angolo, dell’asse che unisce soffitto e pavimento di una stanza, non si preoccupa di soddisfare il sistema, vuole sviscerarlo” (“Arte povera. Appunti per una guerriglia”, in Flash Art, no. 5, novembre – dicembre, 1967, p. 4). Come sottolinea Celant, Fabro si spinge oltre il semplice utilizzo di materiali poveri, manifestando una complessità intellettuale vicina ai più coevi approcci di fruizione dell’opera d’arte.
I lavori in mostra alla galleria Simon Lee di Londra, mediante le componenti in metallo o in vetro, disorientano la modalità con cui sia il corpo che l’occhio dell’osservatore si approccia ad essi.
Mostrando i loro limiti spaziali (e quindi istituzionali), opere come Croce (1965-2001), una grande croce in acciaio inossidabile, e Asta (1965-2001), un palo che pende dal soffitto e arriva appena sopra il pavimento bloccando un’uscita, occupano il maggiore spazio possibile con la minore quantità di materiale necessario. Il percorso dei visitatori è determinato attraverso la successione di una serie di lavori: Tondo e rettangolo (1964-2004), Mezzo specchiato mezzo trasparente e Tutto trasparente (entrambi 1965-2007) e Buco (1963-2005), porzioni di metallo freddo, vetro e specchio le cui forme distaccate trasformano la galleria in un’entità trasparente (tutte le pareti sono bianche) che si pone come una riflessione lungimirante sulla nostra realtà tardo-capitalista.
Altre costruzioni dall’aspetto più ludico sembrano tuttavia stressare lo spazio. Ruota (1964-2001) e Squadra (1965-2001), montate all’estremità di una parete, si contraggono e si flettono a causa della gravità; così facendo ammorbidiscono la forma rigida delle sculture in un modo che riflette la valenza storica dell’artista quale anello di collegamento fra gli sviluppi artistici in Italia e le narrazioni post-minimaliste internazionali degli anni Sessanta e Settanta.
Fabro durante una conversazione con Marcella Beccaria, in occasione della sua mostra al Castello di Rivoli nel 1989, afferma: “La forma dell’Italia è statica, immobile, misuro la mobilità delle mie mani su una cosa ferma”. A cinquant’anni dalla pubblicazione del manifesto dell’Arte povera, la messa in scena secondo il modello originale dei lavori di Fabro pare rivelare l’immobilità dei nostri sé precostituiti.

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